Minority stress e adolescenza
di Simone Astarita
I: Non devi farlo sapere.
“Minority stress” è un’espressione che indica gli alti livelli di tensione riscontrati nei gruppi marginalizzati. Tra le sue cause, oltre alle discriminazioni subite, vi è anche l’aspettativa che tali discriminazioni avvengano; ad esempio, una donna che lavora all’interno di un gruppo di soli uomini si preoccupa di essere considerata meno capace ancor prima che emerga un’accusa. Questa situazione è amplificata per le persone LGBT+, poiché il nostro minority status è nascosto: prima del coming out, impieghiamo anni a occultare la nostra identità, consumando le nostre energie. Un ragazzo gay agisce in modo da evitare la nomea di “frocio” prima che qualcuno lo definisca tale.
II: Che tu sia a scuola, a lavoro o con gli amici, le regole vanno sempre seguite.
Nascondere la propria identità è un’occupazione a tempo pieno: controllare l’ambiente e modificare i propri atteggiamenti richiede un’attenzione e un impegno costanti. Uno studio del 2015 condotto dall’Università della California, Davis, rivela che le persone LGBT+ hanno meno cortisolo da adulti perché il proprio corpo lo produce massicciamente in età adolescenziale, in risposta all’elevato livello di stress. Se consideriamo poi quanto ci si affatica nel negare la propria identità a se stessi, risulta chiaro perché l’adolescenza rappresenti un periodo particolarmente difficile.
III: Non ci si lamenta del proprio lavoro.
Se il detto comune “mal comune mezzo gaudio” è corretto, l’inverso è altrettanto vero: se lo sforzo nel non farsi scoprire va sopportato da soli, pesa ancora di più. Si ha bisogno di qualcuno al proprio fianco, qualcuno in cui rifugiarsi o con cui confortarsi a vicenda, qualcuno che, se non capisce, almeno può ascoltare. Così non è per chi non ha fatto coming out, ma anche per chi l’ha fatto ed è stato rifiutato o punito per questo. E quando quest’ultimo è il caso, uscire allo scoperto con qualcun altro diviene un evento ancora più impegnativo da affrontare.
IV: Fai come gli altri, ma fallo meglio. L’azzurro di un ragazzo bisessuale deve essere più azzurro; il rosa di uomo transgender ancora più rosa, e così via.
Prima del coming out, che sia del proprio genere o del proprio orientamento o di entrambi, non solo dobbiamo fingerci ciò che non siamo, ma può succedere che lo facciamo al massimo grado, fino all’assurdo di assimilare stereotipi eteronormativi. Non partecipiamo al gioco della bottiglia, sia mai che baciamo la persona sbagliata. Forse evitiamo di iscriverci a quello sport o di vestirci in quel modo, sia mai mandiamo i messaggi sbagliati. Se alcuni di noi parlano di persone LGBT+ sempre in terza persona, altri evitano proprio l’argomento, e altri ancora arrivano anche a fare una battuta su quel frocio di quinta C, per non destare sospetti nel non farla. Non tutti ci spingiamo a questi livelli, ma chi ci arriva lo fa per scavare una tana più profonda, più sicura, più impenetrabile per seppellire la sua identità. E quando diventa impenetrabile anche a loro, la tana diviene prigione.
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XXX: Non dimenticare le regole, né ora né mai.
Michael Hobbes, nel suo più famoso articolo Together Alone, afferma che our bodies bring the closet with us into adulthood, ossia che fare coming out non cancella gli anni impiegati a nascondersi. Ripetiamo come abitudini, senza pensarci, le strategie di un tempo: ancora controlliamo le persone che ci stanno attorno, gli sguardi che ci rivolgono, i nostri movimenti, le nostre parole, le nostre espressioni. Ancora ci sforziamo.
Queste regole non sono solo conservate nella nostra mente ma anche incise nei nostri corpi: ad esempio, in una ricerca in corso dell’Università della California, San Francisco, vengono raccolti dati su come questo stress, accumulandosi nel tempo, modifichi il comportamento dei geni degli uomini omosessuali. Dimenticare questo galateo, così assimilato e quindi ancora così presente, è il nostro nuovo compito.
pubblicato sul numero 33 della Falla – marzo 2018
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