Due coming out che hanno cambiato il rapporto tra sport e Hiv. E forse anche il mondo

All’inizio degli anni novanta le parole “Hiv” e “Aids” erano legate quasi sempre e solo a una parola: omosessuale. La narrazione dominante durante une delle più grandi epidemie della storia recente vedeva l’Hiv come appannaggio quasi esclusivo della popolazione LGBT+, facendo andare di pari passo lo stigma e la demonizzazione della malattia con quello della comunità omosessuale. Sull’infezione, dunque, valeva una sorta di don’t ask, don’t tell. Anche nello sport.

Il primo a rompere il muro del silenzio fu il cestista Magic Johnson, stella dei Los Angeles Lakers. Nel 1991, durante un controllo di routine, scoprì di aver contratto il virus, lui, star ed eterosessuale. Una notizia potenzialmente epocale. Il ritiro durò poco – chi può dimenticare il Dream team della nazionale di basket statunitense alle Olimpiadi di Barcellona del 1992? – al contrario delle polemiche. Molti giocatori nella Nba espressero la loro preoccupazione: e se durante uno scontro di gioco l’atleta si fosse tagliato e sanguinando avesse contagiato un avversario? I fan però acclamavano Magic Johnson e per far fronte alle perplessità degli altri giocatori e per garantire una maggiore sicurezza in campo la Nba introdusse quella che fu chiamata ufficiosamente la Magic Johnson Rule, regola che imponeva di lasciare immediatamente il campo in caso di ferite sanguinanti o di maglie da gioco sporche di sangue e di poter rientrare in campo solo dopo essere stati medicati.

Una regola all’epoca innovativa, ma che adesso è diventata comune in ogni sport dove è previsto il contatto e che ha dato il là ad altre disposizioni atte a prevenire la diffusione di tutte le malattie trasmissibili allo stesso modo dell’Hiv. La disclosure di Magic Johnson diede una spinta fondamentale al cambiamento della percezione dell’opinione pubblica in materia della sieropositività.

Se Magic Johnson è vivo e lotta, letteralmente insieme a noi, la stessa fortuna non è toccata invece ad Arthur Ashe, tennista americano. Era il 1992, qualche mese dopo la pubblica ammissione di Johnson, e la conoscenza che si aveva allora del virus era limitata. Così come le cure. Ashe non ce la fece, e morì un anno dopo. Neanche Ashe era gay e la sua carriera sportiva era stata folgorante fino all’anno del ritiro, il 1980. Unico giocatore nero ad aver vinto il torneo singolare maschile di Wimbledon, degli Us e degli Australian Open, Ashe continuò a calcare i campi da tennis fino a quando, nel 1979, non fu colpito da infarto. Iniziò allora una brillante carriera da giornalista e da commentatore sportivo, fino a quando nel 1983 ebbe un altro attacco di cuore. In entrambi i casi fu sottoposto a operazioni e a trasfusioni di sangue. Nel 1988 la scoperta che cambiò la sua vita: durante una delle due operazioni al cuore, proprio a causa delle trasfusioni, Arthur Ashe aveva contratto l’Aids. Mantenne il segreto fino all’otto aprile del 1992 quando, giocando d’anticipo su Usa Today, intenzionato a rivelare la notizia, Ashe si presentò in conferenza stampa per dichiarare pubblicamente la sua sieropositività, stanco delle voci e dei pettegolezzi che da tempo giravano sul suo stato di salute. Le storie di Magic Johnson e di Arthur Ashe – insieme a quella del tuffatore Greg Louganis – hanno dato una spinta decisiva alla percezione che si ha dell’Hiv e, grazie alle terapie odierne, oggi è possibile conviverci e praticare sport, anche a livello agonistico, come se si fosse affetti da un’altra qualsiasi patologia cronica. A patto di non scordarsi mai l’importanza della prevenzione.

pubblicato sul numero 33 della Falla – marzo 2018