Come ogni anno, il 1 dicembre è la giornata mondiale dedicata alla lotta all’AIDS, nata per sensibilizzare sulle condizioni delle persone malate di AIDS, sullo stato della ricerca per una cura e anche sulla prevenzione della malattia. Nonostante il progresso, l’HIV non si combatte solo con i farmaci e la sua diffusione non accenna a diminuire: parlare di HIV, AIDS e prevenzione sembra essere ancora molto difficile in Italia, in un panorama in cui è ancora diffuso un atteggiamento diffidente e una scarsa conoscenza di come proteggersi. Ne abbiamo parlato con Sandro Mattioli, attuale presidente di Plus, associazione impegnata nella lotta all’HIV e nella tutela dei diritti delle persone sieropositive.
Iniziamo facendo una panoramica sullo stato dei contagi in Italia, cosa è cambiato rispetto agli scorsi anni?
I dati del 2023 indicano il proseguire di un peggioramento già osservato nell’ultimo periodo. Negli scorsi anni si pensava che l’incremento di nuove diagnosi fosse dovuto alla pandemia da Covid-19, periodo in cui la gente non faceva i test, per mancanza di spazi dove effettuarli e poi perché la gente aveva paura di andare negli ospedali per via del possibile contagio. Si tratta poi di dati che spesso risentono del fatto che non si sa con certezza quanti test vengono effettuati, e anche del fatto che non sono effettuati studi per capire quanto l’HIV incida su una sottopopolazione specifica, come lə migranti o lə sex worker, per cui è anche difficile elaborare delle strategie di lotta ai contagi.
Di fatto emerge che siamo in una situazione simile a quella del 2019: continuano a esserci diagnosi tardive, in molti casi di persone che sono già in AIDS, tanto è vero che la nuova conferenza italiana AIDS quest’anno ha inserito tra i temi del suo percorso precongressuale proprio le co-patologie AIDS correlate.
Poi c’è da dire che oggi di HIV non se ne parla più, c’è poco interesse anche sul piano dell’informazione, e di conseguenza c’è un’ignoranza generalizzata sul tema, dalla paura di fare il test nel caso vada male al pensiero che l’HIV sia qualcosa che riguarda solamente le persone gay o africane. In questo quadro di ignoranza, la voglia di normalizzazione del test e del non avere paura hanno portato a un crollo dell’interesse sul tema, e di nuovo a relegare tutto il discorso sull’HIV ad alcuni gruppi sociali, appunto le persone gay, bisessuali, trans*, migranti.
Si potrebbe invece pensare che oggi, proprio perché abbiamo più strumenti a disposizione per proteggerci, come i medicinali, il tema sia ormai normalizzato e accettato…
Anche qui, le informazioni sui medicinali che sono circolate sono parzialmente corrette, e poi sono sempre dati che riguardano chi ha ricevuto una diagnosi precoce per un’infezione sessualmente trasmessa, in questo caso l’aspettativa di vita è sovrapponibile a quella di una persona sana. Purtroppo più della metà delle nuove diagnosi è tardiva, ovvero quando l’HIV è lì che lavora nel corpo da cinque, sette anni e la persona ha passato la fase acuta con milioni di corpi virali senza accorgersi di nulla, e quindi non facendo il test. La diagnosi tardiva non è di per sé un problema, la maggior parte dei casi si recupera grazie alla potenza dei farmaci di adesso, quello che non si recupera è il fatto che il virus resta latente e mette da parte risorse, dette reservoir, delle sorte di santuari dove i farmaci non riescono a colpire (perché non sappiamo ancora come arrivarci) e periodicamente la latenza del virus finisce e ricomincia la replicazione: se la persona è in terapia e ha sufficiente farmaco nel sangue, il risveglio del virus viene prontamente bloccato, ma bisogna continuare a seguire la terapia tutti i giorni per evitare questi risvegli.
Un’altra cosa di cui non si parla è che dal punto di vista patogenetico l’HIV fa due azioni. Da un lato cerca di distruggere il sistema immunitario e creare un deficit immunitario così da potersi replicare senza problemi, provocando così le patologie AIDS correlate, che senza un sistema immunitario in grado di aiutare gli antibiotici portano alla morte, spesso un processo veloce che uccide in pochi mesi; a questo, grazie ai medicinali, abbiamo messo un fermo, questi casi si sono molto ridotti e forse è anche per questo che l’AIDS non fa più così paura. Ma l’HIV ha anche un’altra azione, più lenta, quella della attivazione del sistema immunitario, che di conseguenza nelle persone con HIV, anche residuale o con carica virale non rilevabile, è sempre attivo, causando un’infiammazione che in breve diventa cronica: le cellule lavorano più rapidamente, gli organi si logorano e insorgono i tumori, infatti molti studi oggi si concentrano su come le persone con HIV invecchino più rapidamente.
Parlare di HIV e prevenzione, in particolare attraverso l’educazione sessuale nelle scuole, ha ancora un’efficacia? E nel caso, come?
Il rischio che parlandone a scuola si finisca per tenere una lezione di biologia è alto. Sono tutte iniziative sporadiche, che non fanno parte davvero del programma dellə studentə adolescente. Inoltre c’è tutta una cultura, tipica italiana temo, che vuole che fra i 14 e i 17 anni di sesso si debba parlare solo in famiglia, dove però si incontra resistenza perchè “miə figliə queste cose non le farà mai”: con questa cultura dove vai a parlare di sesso e preservativi? È uno scoglio abbastanza importante, perché in Italia i discorsi sulle pratiche sessuali sono ancora tabù e in associazione lo vediamo bene, facciamo praticamente più counseling che test!
Invece parlando dei giornali e dei media di informazione, come viene trattato l’argomento HIV?
Abbiamo di recente fatto un comunicato stampa contro il Resto del Carlino, che titolava Gli untori dell’HIV. Chi è che va a fare un test sapendo di diventare un untorə di HIV per la mentalità generale? Questi meccanismi di pensiero sono estremamente comuni, e di conseguenza fare coming out con amici, colleghi e parenti perché ci si è ammalati di qualcosa riconducibile a questi stereotipi è un problema bello grosso, per cui c’è chi preferisce restare nel closet e non testarsi per la paura di uscire allo scoperto, per paura di una ulteriore discriminazione, anche da parte dei medici. Su questo, sui quotidiani anche generalisti escono articoli uno più osceno dell’altro, e sta riprendendo piede un linguaggio discriminatorio anche in ambito scientifico: abbiamo fatto una reprimenda a Motore Sanità perché hanno di nuovo tirato fuori le categorie a rischio in ambito HIV. C’è una grossa difficoltà da questo punto di vista, e l’ignoranza non aiuta, Act Up diceva l’ignoranza causa la paura e la paura causa la morte. Se le istituzioni lasciassero fare le campagne pubbliche alle associazioni di lotta contro l’HIV uscirebbe qualcosa di più chiaro ed efficace, mirato alle popolazioni chiave.
Percepisci queste paure e questi pregiudizi anche all’interno della stessa comunità LGBTQIA+?
Nella comunità gay è comune la discriminazione perché si è sieropositivi o in PReP, che è comunque più sdoganata di un tempo. Però a me arrivano comunque segnalazioni di discriminazioni su app di dating, e questa roba qui fa sì che si aspetti tantissimo prima di trovare il coraggio di chiedere la PReP, anni in cui si corre un rischio, perché si vuole evitare quest’altro tipo di discriminazione. “Se chiedo la PReP allora anche la mia comunità penserà che sono promiscuo”, magari è vero, ma chissenefrega.
E fuori dalla comunità la PReP è conosciuta o normalizzata?
Se l’HIV è una cosa dei gay, allora anche la prevenzione per moltə è una cosa dei gay. Ci sono alcune persone etero che vengono a chiedere la PReP, ma questa finisce comunque per essere vista come una faccenda di una determinata categoria. Pian piano anche la PRep si sta normalizzando, alla fine anche l’OMS ha dato indicazioni molto aperte per quanto riguarda la sua prescrizione e l’uso.
Infatti, in una situazione in cui magari non si ha bisogno della PReP comunque il sapere cos’è può aiutare ad allentare questi meccanismi di paura e ignoranza?
Certo. Nel nostro paese facciamo fatica a svincolarci da un’impostazione culturale che ci dice che il miglior modo per proteggerci è uno solo, e chi fa diversamente sbaglia, come fino a qualche anno fa in cui eravamo ancora nel periodo Truvada Whore, se usavi la PReP eri una persona promiscua, con tutto il giudizio che questo comporta.
Qual è adesso lo strumento più efficace che si può mettere in campo per la prevenzione?
La cultura, lo dico sempre. Quando sai le cose poi scegli gli strumenti di prevenzione, che possono essere diversi da persona a persona. Sistemi di prevenzione ce ne sono, tantissimi, e in Italia ne sono conosciuti forse la metà. Quindi il piano culturale deve essere sicuramente ampliato, poi ognunə fa le sue scelte di vita ed eventualmente affronta le conseguenze. Bisogna poi insistere politicamente, come associazioni, affinché la ricerca progredisca. Le multinazionali del farmaco fanno ricerca, scoprono delle molecole per dei farmaci che non sono eradicanti, sono cronicizzanti, perché a loro, come aziende, conviene. Una ricerca su un vaccino o una terapia eradicante la deve fare un ente pubblico, bisognerebbe trovare una linea d’azione anzitutto globale, e poi pubblica.
Immagine in evidenza: plus-aps.it
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