Perché dovete smetterla di paragonare il Coronavirus all’Hiv

Il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, ci informa che dopo qualche giorno di febbre alta si sente meglio e a me la cosa fa ovviamente piacere. Assieme a lui, molte altre persone ci hanno comunicato in queste ultime settimane la loro positività al Covid 19: ministr*, assessor*, presidenti di stato, calciatori, attori e attrici… Tutt* hanno voluto informarci di essere stat* contagiat*. Una corsa alla pubblica dichiarazione che dona loro quasi un’aura di sacralità. 

Un alone candido e innocente, molto diverso dal viola che ha contraddistinto l’immagine delle persone che sono risultate positive all’HIV dagli inizi degli anni Ottanta a oggi. Ed è del tutto evidente che nessun segretario di partito, nessun assessore o presidente di Stato, calciatore, e ben pochi attori o attrici, avrebbero mai osato rendere partecipe il mondo della loro positività al virus HIV che, diversamente dal Covid 19, rendeva invece immediatamente colpevoli le persone che ne erano colpite. 

Il Coronavirus è socialmente vissuto come una circostanza sfortunata che si abbatte su persone inconsapevoli e innocenti, verso le quali prevale un sentimento di pietas che comprende il rispetto verso la persona, la patria e Dio.

Per l’HIV, invece, ciò che ha prevalso non è stata l’infezione in sé, ma le terribili immagini della rappresentazione sociale della malattia e delle persone che ne erano colpite: il sesso o la droga erano la loro colpa e se la diagnosi la facevano i medici, la prognosi era spesso affidata ai mass-media.

La contrapposizione netta tra gli aventi diritti (alla salute) e gli aventi colpe caratterizzò fin da subito l’epidemia da HIV, cosa che non accade oggi con il Coronavirus. 

Per l’HIV non fu possibile indicare focolai e definire zone rosse: gli indicatori del pericolo erano non il luogo in cui si viveva, ma i comportamenti e le identità. 

La negazione della libertà, in quegli anni, non ha riguardato una o più zone geografiche, ma la singola persona e il tutto è avvenuto con la complicità di buona parte della scienza medica che, riacquisendo il suo antico ruolo di moralizzatrice, ha potuto mutare l’oggetto del proprio intervento dalla cura del corpo alla cura dei costumi, soprattutto sessuali. Erano i corpi e i desideri delle persone che venivano percepiti come minacce, non il virus. La distanza che si definì come preventiva nei confronti delle persone con HIV/AIDS non era solo fisica e non era di un metro, ma puntava piuttosto a farle sprofondare nell’abisso più lontano, segregandole attraverso uno stigma istituzionalizzato.

In molti casi le persone addette alle pompe funebri si rifiutavano anche solo di avvicinarsi alle persone morte per AIDS, i dentisti di curare le persone con HIV, i figli e le figlie di persone HIV-positive venivano esclus* dalle scuole e i genitori dal mondo del lavoro senza nessuna compassione, né alcun decreto che ne sostenesse il reddito. 

Non fu lo Stato a intervenire in quella pandemia, ma la lotta incessante e determinata delle persone che ne erano colpite.