DELL’AMORE PER AMPELO E PER IL VINO
«Fa’ che sia colmo ancora il frutto estremo;
concedi ancora un giorno di tepore,
che il frutto giunga a maturare, e spremi
nel grave vino l’ultimo sapore»
Rilke
Del mondo greco è nota, ancorché spesso fraintesa, l’istituzione della pederastia (Un sistema culturale educativo basato su rapporti, anche sessuali, tra uomini). L’attitudine omoerotica si ritrova non solo in svariate raffigurazioni ma pure in testi antichi della natura più disparata, basti pensare ad Aristotele che, per spiegare il primo mobile – la più esterna delle sfere del cosmo, che muove senza essere mossa – utilizza proprio la metafora dell’erastes e dell’eromenos: l’amante e l’amato. Pare naturale, dunque, che il Mito non sia esente da episodi che narrano l’ascendenza pure divina di questo fenomeno. Celebre è la figura di Ganimede, il coppiere degli dei, un povero pastore della Frigia la cui bellezza rapì il cuore di Zeus in persona, al punto che decise di rapirlo sotto forma di aquila per portarlo alla vita eterna sull’Olimpo e farne il suo amato.
Meno conosciuta è un’altra storia, che pure ha delle affinità con quella di Ganimede: il mito di Ampelo. Secondo quanto racconta il poeta Nonno di Panopoli, in una lontana regione dell’odierna Turchia, probabilmente la stessa Frigia di Ganimede, un giorno Dioniso, dio della vegetazione, della linfa vitale e poi dell’estasi, scorse un ragazzo di incomparabile bellezza. Più bello perfino del dio stesso, Ampelo, un giovane satiro provvisto di coda, fu avvicinato da Dioniso che, celando la propria natura divina, passò con lui intere stagioni e se ne innamorò. Questo strano stato di sospensione amorosa era destinato a cessare. Dioniso, avendo avuto diverse visioni legate alla morte prematura del suo amato, era sempre più preso dalla preoccupazione e, inevitabilmente, quegli ingranaggi tipici del destino mitologico iniziarono a muoversi. Il giovane Ampelo si dilettava nel cavalcare animali selvatici ed esotici, ricoprendo loro il capo di narcisi e anemoni prima di salire in groppa (ambedue i fiori erano nati, secondo il mito, dopo la morte di ragazzi amati dagli dei). Così fece, come usava, con un toro, allo scopo di vincere la sfida di un satiro suo amico, sotto le cui spoglie si celava però Ate, dea dell’errore, mandata dalla gelosa Era a porre fine alla vita di Ampelo.
Montato sul toro e tronfio della propria riuscita, Ampelo non si accorse che un tafano aveva punto la bestia facendola infuriare. Così il toro scaraventò il corpo del satiro contro le rocce fino a staccargli la testa. Dioniso accorse e tentò di salvarlo cospargendo le ferite di ambrosia, ma senza successo.
I suoi lamenti furono così profondi da commuovere Atropo, l’inflessibile e più anziana delle Moire, al punto che ella decise di dare nuova vita al corpo del giovane, strappandolo all’Ade e trasformandolo in una pianta di vite, che da quel giorno esprime la dolcezza dell’ambrosia usata da Dioniso nel suo ultimo atto d’amore, come dono ai mortali dell’ebbrezza del vino.
Pubblicato sul numero 61 della Falla, gennaio 2021
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