IL MIO OTTO – INFINITO – MARZO

-These memories can’t wait … – cantavano i Talking Heads in Fear of music (1979). Nemmeno i miei ricordi di quarant’anni fa. Appartengo, infatti, alla generazione che ha ricordi dell’8 marzo anni Settanta, quindi della prima fioritura massiva del femminismo, l’esperienza politica, estetica e umana più dirompente e duratura del Novecento, il fenomeno senza il quale niente di quel che agiamo e pensiamo nel 2019 sarebbe mai potuto sorgere e svilupparsi.

Sono alle scuole medie, sul finire dei Settanta, a Chiavari, una cittadina sul golfo del Tigullio. C’è un luogo dove si riuniscono le femministe. Persino in quel comune catto-conservatore so che esiste un posto dove quel che sento, che non è esattamente solo sorellanza ma è una pulsione lesbica che comincia a svilupparsi nebulosamente in me, può trovare uno spazio di comunicazione. Sono troppo piccola e timida per varcarne la soglia,tuttavia sento già con chiarezza che quel mondo mi appartiene. Leggo tutto quel che riguarda le battaglie politiche del femminismo, appena posso, su Repubblica, il giornale che esiste da poco, molto aperto ai movimenti nella sua prima fase. Leggo L’Uno, il supplemento culturale di Linus, dove trovo persino una stroncatura di In volo di Kate Millett fatta dal direttore Oreste Del Buono, per il quale la vita bisessuale di questa femminista è criticabile con la scusa di quello che per lui è kitsch narrativo. Me lo procurerò solo a vent’anni il testo, leggendolo e rileggendolo più volte, come uno splendido romanzo d’amore, d’impegno e di avventura nella New York degli anni Settanta.

Otto marzo. Un numero che va verso l’infinito. Forse la mimosa è solo un bel fiore giallo, precoce ed effimero, dal profumo a volte stordente? No. Forse questo accadeva a fine anni Ottanta, in certe feste in pizzeria fra ragazze che avevano il giorno libero dal loro asservimento etero- patriarcale e ne approfittavano per festeggiare un giorno libero da una vita, se non angosciante o tormentata dalle violenze, quantomeno limitata da ruoli schematici e imprigionanti, viziati dalla retorica dell’amore e del materno.

Negli anni Ottanta varcavo anche per la prima volta la soglia della Libreria delle donne di Via Dogana. Libri lesbici confinati in uno scaffale marginale, ma si capiva la pregnanza dei riferimenti politici e del percorso. All’epoca non capivo ancora, nessuna me ne aveva parlato, che esistevano  un femminismo essenzialista e uno materialista, che esistevano lesbiche che mettevano in crisi il concetto stesso di genere. Non c’era ancora un gender trouble, di Wittig svettava solo Il corpo lesbico. Non lo comprai. Le gerenti non mi erano simpatiche. Ero una ragazza vicina agli ambienti autonomi, dove c’erano compagne e compagni simpatici, avversavo lo snobismo, ogni retaggio della borghesia. Percepii in qualche modo anche questo, in Via Dogana.

Fossero vere o no le mie sensazioni, il mio femminismo si sviluppò insieme alla dimensione lesbica e, più tardi, a quella queer. Costellazioni che mi sembrano vicine. Doni epistemologici per una riconfigurazione del mondo, forse per la sua salvezza.

Adesso, nel 2019, il mio otto – infinito – marzo lo penso anche afrofuturista, non solo bianco come nel Novecento, vedo i percorsi fatti con intensità, percepisco linee di forza e anche debolezze. Ora come allora,  vorrei che la parola lesbica fosse nominata nel percorso di questo viaggio che non presentiamo breve, non utilizzata solo come testimonianza di un endorsement anti-gpa o trans, ma nemmeno nascosta come veteropolvere sotto il tappeto di fluidità generiche, che poco dicono dei nostri vissuti. La mimosa può essere pervasiva, non deve diventare soffocante. Buon Otto.