SCRIVERE LA STORIA LGBT+
Quest’anno l’Università di Torino ha attivato un corso di Storia dell’omosessualità nell’ambito del corso di laurea in Dams e io ho l’onore di tenerlo. Poiché si tratta del primo corso con questa denominazione insegnato in una università italiana, la sua attivazione ha generato dibattiti, discussioni e anche qualche polemica.
Tutta l’attenzione di chi ne ha parlato è stata sulla parola “omosessualità”, che, inserita per la prima volta nella dicitura di un corso di storia in Italia, ha certamente testimoniato una piccola rivoluzione rispetto al trattamento di silenzio e invisibilizzazione riservato fino a tempi molto recenti a questo soggetto negli spazi pubblici. Ma vale la pena tuttavia di concentrarsi anche sull’altra parola, “storia”, e chiedersi quindi: cosa significa affermare che l’omosessualità ha una storia? Cosa significa scrivere, studiare e trasmettere questa storia?
Significa innanzitutto (come è forse ovvio) affermare che l’omosessualità ha e ha avuto nel tempo una presenza: la storia ha in questo caso la funzione di riaffermare una realtà, quella della vita di molti uomini e donne nel passato, così spesso negata e attivamente occultata, tant’è vero che si è cominciato a fare “storia dell’omosessualità” solo a partire dagli anni settanta del novecento.
Quasi cinquanta anni fa, com’è noto, lesbiche, gay, donne transgender resistevano all’ennesima retata della polizia in un bar frequentato dalla comunità LGBT+ di New York dando vita ai moti di Stonewall e quindi al movimento di liberazione omosessuale contemporaneo. Aveva inizio una straordinaria stagione di mobilitazione politica, sulle due sponde dell’atlantico, fatta di marce e proteste, che portava finalmente le persone non eterosessuali nelle strade e nelle piazze: finalmente visibili, in tutta la loro eccentricità, della quale si dicevano, per la prima volta in modo inequivocabile, orgogliose.
Ma questa presa di parola pubblica e collettiva non si è limitata a liberare corpi: ha liberato anche migliaia di pagine di documenti, carte d’archivio che racchiudevano esperienze, parole, intere esistenze. Epistolari, diari, incartamenti processuali, cartelle cliniche: tracce di esperienze e desideri LGBT+ fino a quel momento innominabili, relegate nel silenzio e nell’invisibilità, per la prima volta sono potute letteralmente uscire dagli armadi degli archivi. In questi anni vengono pubblicati i primi libri di storia gay e lesbica, basati su materiale che – è bene sottolinearlo – non viene propriamente scoperto in quel momento, ma semplicemente trova infine le condizioni favorevoli alla pubblicazione.
Così ad esempio i diari di Anne Lister, la gentildonna inglese vissuta tra il 1791 e il 1840, che in un linguaggio cifrato aveva raccontato nel dettaglio, con orgoglio e spregiudicatezza, le sue relazioni con altre donne, nascosti e dimenticati per quasi cento anni, vengono ritrovati nel 1933, quando la casa diventa museo. Ma non è ancora il loro momento: ripetutamente occultati da generazioni di archivisti che continuano a imbattersi in queste carte ma non appena ne decifrano il significato le ripongono frettolosamente nei faldoni, vedranno la luce dello spazio pubblico solo nel 1980, quando sarà proprio la mobilitazione LGBT+ a consentire ai diari di abbandonare la clandestinità ed essere finalmente pubblicati.
Siamo ancora alla metà dell’ottocento quando in Italia Luigi Settembrini, figura di spicco del nostro Risorgimento, consegna a un libretto – I neoplatonici – la straordinaria narrazione della relazione tra due giovinetti ambientata nella Atene dell’età classica, improntata a un omoerotismo affettuoso, a una sessualità liberamente goduta e a un’etica paritaria descritte con leggerezza e partecipazione.
E, come nel caso di Anne Lister, è ancora soltanto negli anni ‘30 che gli archivisti riordinando le carte private di Settembrini vi si imbattono e si rivolgono all’allora direttore, Benedetto Croce, che consiglia di nascondere quelle pagine “lubriche e malsane”. Il libro sarà pubblicato solo nel 1977, quandoanche in Italia la comunità LGBT+ comincia a farsi sentire.
Molto altro materiale, anche se già conosciuto, proprio a partire da questi anni viene letto per la prima volta senza le lenti deformanti dell’eterosessualità obbligatoria: dai romanzi di Proust alle fiabe di Hans Christian Andersen, alla poetica di Emily Dickinson, solo per citare alcuni tra gli esempi più noti. Ma anche carteggi, scritture private o memoriali meno celebri, accanto a una moltitudine di testi ascritti ai generi della “letteratura minore” si arricchiscono di nuovi livelli di lettura e rivelano in filigrana l’innervatura di una vita e di una storia prima insospettabili. La vera scoperta infatti, come spesso accade nella ricerca storica, non consiste tanto nel rinvenimento di questo o quel documento eccezionale, quanto soprattutto nella nuova consapevolezza che il bacino delle fonti per la storia LGBT+ è potenzialmente infinito: non esistono queer free zones, e la presenza delle sessualità non eterosessuali filtra e dissemina le proprie tracce, per chi sa leggerle, in ogni testo e in ogni contesto, attraverso le epoche.
È qui che si colloca la nuova sfida rilanciata dalla storia delle sessualità queer: leggere, oltre l’orizzonte della scrittura di una storia LGBT+, le premesse per una riscrittura LGBT+ della storia. In questo rovesciamento di prospettiva, oltre a punteggiare le narrazioni storiche di presenze queer, è possibile ripensare globalmente il nostro passato, proprio a partire da queste presenze e dalle loro tracce ostinate e persistenti, sopravvissute alle censure: limitandoci ai nostri esempi, cosa ha significato che le donne come Anne Lister venissero progressivamente associate all’“inversione sessuale” nel corso dell’Ottocento? Lo spettro del lesbismo proiettava ombre minacciose di sanzione sociale non solo sulle donne che come lei amavano altre donne, ma anche su tutte quelle che come lei viaggiavano, studiavano e indossavano pantaloni, contribuendo a tenerle tra le mura domestiche.
Cosa ha significato che il nostro Risorgimento si sia configurato come una celebrazione della coppia eterosessuale, così profondamente saldata alla retorica nazionalista? Tutto ciò non ha forse influito sul tortuoso percorso di acquisizione della piena cittadinanza per le persone non eterosessuali?
Abbandonata la presunzione dell’eterosessualità come normale e naturale, anche e soprattutto per contesti lontani dal nostro, si apre un ventaglio di questioni che può indurci a ripensare radicalmente anche il nostro presente: ogni scarto dalle norme di genere può tracciare davvero un nuovo corso della storia, e non solo della nostra storia. Ogni corpo che resiste alle ingiunzioni di genere può segnare un movimento di liberazione che, aprendo assieme agli armadi delle nostre vite anche quelli della nostra storia e memoria, ci dischiude la possibilità di ritrovare e (ri)costruire le strade d’accesso al nostro presente e futuro.
pubblicato sul numero 36 della Falla – giugno 2018
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