Nel 1996 la costituzione del Sudafrica è stata la prima al mondo a includere una clausola di uguaglianza che menzionava esplicitamente l’orientamento sessuale. Malgrado questo, uno studio del 2016 rivela che sette cittadini su dieci ritengono l’omosessualità sbagliata o disgustosa. Tra le persone LGBTI+, in particolare quelle gender-nonconforming e nere, una su dieci sperimenta violenze o stupri prima dei 24 anni.
L’inclusione a livello legislativo ci garantisce uguaglianza sociale, sicurezza, cambiamento culturale? La risposta è tristemente no, ma vale la pena porsi più attentamente la domanda in queste settimane di dibattito sulla legge Zan.
Non sarà una legge che punisce i comportamenti omolesbobitransfobici a estirpare dalla coscienza ciseteronormata del nostro Paese le radici di quei comportamenti. Non sarà una multa, una sentenza o la minaccia di una delle due a disarmare la mano violenta dell’oppressore, che agisce in un contesto di legittimazione sociale prima che giuridica.
Ecco perché lo slogan scelto da una parte del movimento è «Molto più di Zan». Non perché non si ritenga necessario che la legge italiana riconosca il movente omolesbobitransfobico, misogino o abilista della violenza; non perché non si reputi importante che lo Stato si doti di strumenti di analisi e d’intervento nell’ambito di quello che si scopre finalmente essere un fenomeno reale e pericoloso.
Ma perché è ingiusto – ed è parte del sistema di marginalizzazione che fa delle persone LGBTI+ una minoranza – sapere che questo è il massimo che si può chiedere, che non si può volere di più. Ci tocca applaudire al coraggio eroico dei politici, che difendono un mero provvedimento di civiltà, e all’audacia dei vip, che condannano pubblicamente l’idea che gli omosessuali vadano messi in forno, invece di chiederci come è possibile che, in Italia, questa sia considerata una posizione scomoda e censurabile.
Ci tocca, in sintesi, accettare che il dibattito si appiattisca, perché qualunque elemento di complessità mina le speranze di approvazione della legge e incrina il supporto dell’opinione pubblica, alla quale i media vendono una versione liofilizzata della questione. Si veda quanto accaduto con il movimento femminista, scagliato a forza tra le file degli oppositori alla legge Zan perché alcune sue voci convenientemente amplificate hanno contestato l’inclusione del termine identità di genere nel testo.
La nostra voce emerge a fatica, quando ci riesce è spesso indirettamente disciplinata dal mezzo stesso che la filtra, la paura di essere strumentalizzate ci attanaglia. Ma questo non ci deve impedire di dire chiaramente che ci aspettiamo questo e molto altro, che la legge Zan non è che un punto di partenza e che, in quanto frocie, lesbiche e trans, pretendiamo di essere ascoltate quando si parla delle nostre vite.
Perseguitaci