Mai titolo fu più didascalico per un film Netflix che si regge sostanzialmente su tre elementi: una piazza, il Natale e Dolly Parton.

La piazza è quella dell’innevata cittadina di Fullerville, tipico spaccato della tipica cittadella utopico-fiabesca attorno cui si raccolgono i negozi natalizi e l’immancabile chiesa, tipici edifici abitati dai tipici cittadini da musical: tutti canzoni, balletti e deliziosi sentimenti.

La vigilia di Natale, non poteva che essere la vigilia di Natale a Fullerville.
Proprio mentre tutti vincono contemporaneamente la gara a che ce l’ha più buono – l’animo -, irrompe sulla scena Regina Fuller (Christine Baranski), padrona della città – nomen omen – che elargisce a ogni abitante delle notifiche di sfratto: ha ben pensato di vendere l’intero terreno a una grossa multinazionale intenzionata a farne un mastodontico centro commerciale.
Grande tristezza, rabbia sconsolata, nessun ricorso alla Corte Suprema ma una ben più efficace veglia-protesta all’interno della suddetta chiesa per cercare di dissuadere la glaciale Regina. Nel susseguirsi delle ore si snocciolano i piccoli grandi drammi esistenziali dei vari personaggi, che non vogliamo in alcun modo svelare, nel caso in cui qualche lettrice si fosse persa i tòpoi dei film natalizi dai fratelli Lumière in poi. 

Chi potrà salvare il Natale dai deliri turbocapitalisti di questa novella Scrooge? Ovviamente lei, Dolly Parton, che del film ha curato interamente la colonna sonora. Nella finzione un angelo quasi quanto nella realtà. A Fullerville salva la vita di una bambina, redime gli spiriti più oscuri, riunisce amiche e famiglie che manco Raffaella Carrà, dispensa immacolate concezioni, fa da tutor a un angelo tirocinante e ci guarda con quegli occhi pieni di malinconica bellezza. Nel nostro mondo, non dimentichiamolo, è la quintessenza del country, ha prodotto Buffy, ha scritto canzoni che fanno parte della biografia emotiva di ognuna di noi – e se non ne fanno parte dovrebbero -, è ritenuta un faro di femminismo da Jane Fonda, è in suo onore che la prima pecora clonata è stata chiamata “Dolly” ed è a lei dobbiamo uno dei vaccini per il Covid-19. Insomma, una che con la divinità ha una certa dimestichezza.

Deus ex machina canterino, l’angelica Dolly ci condurrà in un’avventura piuttosto stucchevole e non priva di debolezze, in cui gli attori e le attrici non brillano per doti interpretative e tecnica vocale. Qualche spunto interessante e sporadici momenti toccanti non salvano una produzione un po’ pasticciata. Alla fine, si rivelerà tutto un grande teatro freudiano fatto di rimossi e nevrosi; come sempre. 

Consigliamo la visione a:

  • tutte le groupie di Dolly Parton;
  • quel me stesso bambino che aveva un disperato bisogno di credere in un mondo in technicòlor, quindi, per estensione, a tutti i bambini dagli 0 ai 10 anni;
  • chi pensa che la regista e coreografa del film, Debbie Allen, sia passata dall’essere una provetta insegnante di danza a una rinomata chirurga-urologa senza soluzione di continuità;
  • chi ha del tempo da perdere;  
  • chi ritiene Josh Segarra un attore così talentuoso che vorrebbe dimostrargli quanto apprezzi le sue doti in un incontro privato, sotto le lenzuola;
  • chiunque abbia voglia di passare oltre i dettagli e desideri concedersi una pausa, graziosa e piena di calore, dagli orrori di un mondo cupo.

«Oh mio dio! Se devo avere un’altra allucinazione spero non esageri con gli strass», così chiosa una Regina Fuller ancora restia alla redenzione trash. Noi, redente da un pezzo, per questo Natale ci auguriamo esattamente l’opposto.

Immagine nel testo realizzata da Ren Cerantonio