di Giuseppe Nanfitò

Savušun è un grido di dolore, il lamento funebre per la morte di un principe, eroe di un antico poema persiano, perseguitato dalla passione incestuosa di una matrigna. Ma è anche il titolo del primo romanzo scritto in persiano da una donna, che racconta le vicende di una famiglia di Shiraz durante la Seconda Guerra Mondiale. E proprio da Shiraz proviene Sorour Darabi, performer autodidatta, artista transgender iraniano che ora vive e lavora a Parigi, dove sviluppa la propria ricerca nella danza contemporanea intrecciando il tema dell’identità di genere con quello del linguaggio, delle emozioni, della cultura religiosa islamica e delle proprie radici persiane.
Seduto in alto sulla tribuna, mescolato ai tanti volti del pubblico, Sorour se ne distingue subito alzandosi fieramente, all’improvviso, avvolto in un mantello scuro. Scende le scale diretto al palcoscenico e intanto inizia a modulare dei suoni seducenti nella propria lingua, il farsi, in cui le distinzioni di genere non esistono e la parola “gender” significa anche “materiale”: il gender di una persona è dunque il suo corpo, le sue ossa, il suo sangue.
Sceso finalmente sul palco intona un canto mentre lascia cadere il mantello mettendo in mostra il proprio corpo, la propria trasformazione; indossa solo dei pantaloni neri e una cintura di candele bianche e si muove convulsamente al ritmo cadenzato di lontane percussioni.
La cerimonia da cui Sorour prende ispirazione per costruire il proprio movimento è quella di Sineh Zina, celebrata durante il mese di Muharram, quando, rielaborando l’antico rito preislamico che commemorava la morte del bel principe persiano, gli sciiti piangono a loro volta la morte di Alì, nipote di Maometto e capostipite della loro tradizione religiosa: una cerimonia a lungo proibita in Iran e riabilitata solo recentemente, sotto il nuovo regime religioso sciita, a cui prendono parte ormai anche persone non religiose in virtù della sua forza di coesione identitaria e della sua importanza nella storia del Paese, ma riservata solo agli uomini.
Il rito è una sorta di Carnevale che ha luogo nelle strade, spiegherà Sorour, ma che mette in scena il dolore e la sofferenza, così difficili da esprimere nella cultura occidentale, dove non si hanno gli strumenti per dare voce a queste emozioni, relegate esclusivamente al rapporto psicoterapeutico. La sofferenza portata in strada dal Muharram è il dolore della perdita, l’esperienza che accomuna ogni essere umano ma che a maggior ragione, nella prospettiva dell’artista, accomuna le persone LGBTQI, costrette a volte a perdere i propri amici, la propria famiglia, il proprio Paese pur di rimanere fedeli alla propria identità.
Così anche l’artista sperimenta quel dolore sul proprio corpo maneggiando numerose candele accese, le stesse che commemorano i defunti durante il rito, stringendole fra i denti e poi in mano, esasperando una raffinata mimica facciale per trasmettere quell’intima sofferenza in una performance scandita da tempi lunghissimi, movimenti talvolta impercettibili, intensi, e un solo spazio per la musica, che scorre nella quasi totale immobilità dell’artista presto spezzata da altre enigmatiche sequenze di ballo.
Ma il punto più alto della performance è la lettura di una lunga lettera d’amore in francese, indirizzata al padre: «Tu sei stato il mio primo amante», esordisce l’artista, ma si percepisce subito l’amara consistenza di un amore non ricambiato, di una distanza incolmabile, dello struggente desiderio di un figlio, carnale e spirituale, incestuoso come nella storia del principe, per il padre; l’amore per un corpo paterno, un corpo maschile, descritto con precisione chirurgica, che lo spettatore difficilmente riesce a separare dall’immagine del nuovo uomo che gli sta davanti, dei «giovani peli, appena spuntati» che il figlio offre orgogliosamente al padre e che gli chiede di accarezzare, così come li ha offerti allo sguardo del pubblico.
E nella lettera esplode anche il ricordo della guerra combattuta dal colonnello Darabi, quella contro l’Iraq negli anni ’80, trasfigurata nell’immaginario dell’artista in un incontro orgiastico fra uomini giovani e belli, in cui il sesso si sostituisce alla morte.
Ma il senso di perdita rimane, e «Vuoi annegare le tue paure nelle mie lacrime?» ripete l’artista ancora e ancora, prima di concludere la performance con un ultimo giro di danza sfrenata e sensuale.

Al centro della performance, dichiarerà l’artista durante l’incontro col pubblico, c’è anche l’intento di scardinare il pregiudizio occidentale di una mascolinità tossica esclusivamente nei Paesi mediorientali, ma soprattutto c’è il tema della vulnerabilità: la stessa che ha provato durante il suo periodo di transizione e che ora mette in scena sul palco, l’unico luogo in cui riesca a sentirsi a casa, nella ricerca continua ma pessimistica di un safe space che gli sembra precluso anche nei Paesi occidentali, dove la diversità è ben lontana dall’essere pienamente accettata.
«Penso che se non fossi stato un artista non sarei sopravvissuto», conclude poi senza perdere il sorriso.
Lo spettacolo, andato in scena in due repliche all’Atelier Sì a Bologna l’1 e il 2 novembre, si rivela efficacemente inserito nel contesto del festival Gender Bender, rappresentando un momento di profonda riflessione e dialogo con l’altro sui temi più delicati e attuali che il nostro mondo si trova ad affrontare.

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