RECENSIONE DI QUEER GAZE, A CURA DI ANTONIA CARUSO, ASTERISCO EDIZIONI, SESTO SAN GIOVANNI 2020

Queer gaze significa sguardo queer. Mi piace associarlo a maze, labirinto. Penso in particolare a un brano musicale sperimentale come Lost in a maze, del compositore queer John Cage. Labirintico è questo libro, curato da Antonia Caruso e intessuto di voci polimorfe, esondante di gaze su opere di Netflix e di altre piattaforme. Opere in cui le voci di chi scrive si sono lasciate andare e si sono forse specchiate, in una prospettiva di arricchimento emotivo, estetico e cognitivo, e meno sociale e politico. Il mondo dello storytelling visivo globale è potente, il queer gaze entra nella fascinazione come in un maze da cui poi cerca di uscire, delineando i limiti dell’inclusione. Scrive Eugenia Fattori nella postfazione di Queer gaze:

«A livello di singola personalità critica la collocazione è delle più varie, in uno specchio quasi perfetto della tensione fra desiderio di appartenenza, forzata normalizzazione e militanza che vive la comunità nel suo complesso.»

Antonia Anna Ferrante nel suo saggio Cruising Sense8, espone considerazioni queer ( il titolo stesso è un omaggio al teorico queer Muñoz) sulla serie delle sorelle Wachowski come emblema della produzione Netflix, tra globalizzazione, macchine performanti e utopie della rete. Cluster che resta tuttavia legata al maschio bianco, eroe del cis-Graal di communitas fondate ancora sul mito di Parsifal, come il Capitan Neo di Matrix. «Queerness is not yet here» sostiene Muñoz, ripreso da Ferrante anche in conclusione e traducendo queerness con frocianza. Su questo termine esprimo un lost in a maze, smarrita nell”erasure della lesbicanza, che avrebbe anch’essa dignità queer, quantomeno nel mio gaze.

Federica Fabbiani, già autrice del pregevole saggio sul cinema lesbico Sguardi che contano (Jacobelli 2019), nel suo L’impossibile queerizzazione di Mary Ann analizza Tales of the city, sottolineando il reticolo labirintico di modalità relazionali e generazionali rappresentato in questa produzione Netflix. Herstory di Mijke van der Drift esplora alcune produzioni e rappresentazioni trans* anche in  web series; Gettin Bi di Lucia Tralli si addentra nella rappresentazione della bisessualità; Homophobia is so 2000 di Valerio De Simone e Stefano Guerini Rocco analizza le teen series e l’assorbimento in esse del discorso eteronormato sotto le mentite spoglie di un’ inclusività millennial. Ben strutturato è anche Woman vs Woman story  il saggio di Irene De Togni su Killing Eve, serie che riscrive, a suo avviso, in termini xenofemministi il topos della Spy vs Spy story

È il visivo a produrre lo choc, al di là dello storytelling, così Elisa Manici scompiglia l’orientamento già precario del labirinto e riporta i corpi al centro. Nel suo saggio La grassezza è queer, Manici non procede solo verso queerness-devianza ma declina queerness e fatness arditamente, in un processo di svelamento del gioco e dei compromessi dei corpi. Ecco a noi la grassezza:

«… condizione aborrita da chiunque nella nostra società, nonché altamente stigmatizzata ed è possibile che le stesse persone che si occupano di queer e/o si definiscono così, non abbiano presente quanto e come la grassezza sia intrinsecamente queer. Se la queerness è intesa come deviazione dalla norma eterosessista, così la grassezza è vista come una devianza e un rifiuto delle norme condivise sui corpi.»

Il saggio di Manici riporta la dimensione del corpo oppresso sullo schermo e sulle pagine, orienta quindi nel maze, e ci ricorda che i fenomeni di avanguardia estetico-politica non si nutrono solo di ideologia, ma nel loro aspetto produttivo e di agency portano all’emergere dei corpi reali nella storia. Anche se per ora è solo uno storytelling.