Da qualche mese sto a Pechino, un posticino grande più o meno come il Lazio, dove vivono circa 22 milioni di persone. Studio il cinese e per quanto a volte pensi di aver capito qualcosa di questa gente, premetto che il mio è un punto di vista parziale, cioè un po’ incompleto e un po’ fazioso. Il fatto è che sono italiano. Sono cresciuto pensando che l’Europa fosse al centro del mondo e ho imparato una lingua flessiva, che mi ha abituato a pensare in modo elastico, lontano dalla rigidità di questi cazzo di disegnini (i caratteri cinesi), dove basta sbagliare di poco e cambia tutto.

Cominciamo da qui: tóngzhì, compagno, è un termine che una volta definiva l’appartenenza al Partito, ma ora è solo sinonimo di partner omosessuale. Va da sé che all’Assemblea Nazionale del Popolo non si usi più e gli si preferisca il generico xiānsheng, signore. In una relazione meno impegnativa ci si può chiamare péngyou, amici, ma se invece si usa pàoyou, unendo i termini cannone e amico, si intende qualcosa di simile a fuck-buddy. Piccolo particolare: gli amici dopo la scopata rimangono tali, gli scopamici invece non si salutano nemmeno (una botta e via and I mean it!). In generale c’è un po’ la paura di venire scoperti. È comunque un paese che ha decriminalizzato l’omosessualità nel 1997 (l’Italia nel 1890) e dove l’atteggiamento del governo si riassume nella politica dei 3 NON: non approvo, non disapprovo, non promuovo. In sostanza puoi fare ciò che ti pare, basta che non fai rumore… che la morale confuciana, con le sue gerarchie e i suoi nuclei fissi, non tollera troppa libertà.

Torniamo ai fatti: la metà dei ragazzi qui sono twink: magrini e con la faccia pulita. Segue una buona percentuale di bear e infine i muscle, con alcuni sfortunati casi di there’s no gym for your face. Oltre alle solite app stile Grindr, frequentate sia da locali che da stranieri, è molto in voga Blued, che ospita quasi esclusivamente profili cinesi. Foto ritoccatissime e corpi acefali dappertutto. Il fake qui poi assume un significato particolare. Sono pochi infatti i profili totalmente finti, ma molto spesso le immagini sulla confezione non corrispondono alla realtà o il prodotto non funziona come promesso dal messaggio pubblicitario, in pieno stile made in China. La conversazione tipo è particolarmente interessante: Nĭhăo shuàigē, nĭ J dà ma? Ovvero: Ciao bello, hai il cazzo grande? Sarà il volto occidentale a stimolare tanta sfacciataggine, ma forse basta questo per verificare l’ipotesi sulla scarsa dotazione media degli autoctoni. Quando si parla di sesso invece si torna a essere educati e spessissimo si sente zuò ài, fare l’amore, anche in contesti piuttosto hook up. Cào (si pronuncia con la z di zozzo) significa scopare. Si può scrivere in diversi modi (il mio preferito per la sua chiarezza è l’ideogramma raffigurante un uomo sopra a un pezzo di carne), è molto volgare e di norma si usa solo una volta scambiate le foto hot. Rimanendo sul vocabolario base, kŏujiāo, pompino, traduce quasi perfettamente lo slang bolognese del “fare una bocca”, mentre dă fēijī, fare o farsi una sega, risulta molto poetico, in quanto letteralmente significa “prendere il volo”. La lingua condiziona molto la vita in questo strano paese, soprattutto se non si sa il cinese. A Pechino, a differenza di posti come Shanghai o Hong Kong, più moderni e international, la maggior parte dei ragazzi non sa l’inglese e quand’anche, lo parla malissimo. Si procede per tentativi… parole che forse non dicono ciò che intendevamo, discorsi faticosi che magari non portano a niente. Insomma, come da noi.

pubblicato sul numero 17 della Falla – luglio/agosto/settembre 2016