«Signori: è tempo di dire che l’uomo, prima di sentire il bisogno della cultura, ha sentito il bisogno dell’ordine. In un certo senso si può dire che il poliziotto ha preceduto, nella storia, il professore, perché se non c’è un braccio armato di salutari manette, le leggi restano lettera morta e vile. Naturalmente ci vuole il coraggio fascista per parlare in questi termini.»
Benito Mussolini, 26 maggio 1927
Il 22 ottobre 2022, Giorgia Meloni ha giurato davanti a Sergio Mattarella, di «essere fedele alla Repubblica, di osservare lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare il mio mandato e le mie funzioni nell’interesse esclusivo della nazione». Per la prima volta dopo 76 anni, la Repubblica italiana ha una Presidente del Consiglio. La leader dell’estrema destra corona trent’anni di militanza con l’incarico più prestigioso della sua carriera politica, cominciata nel 1992 quando, a 15 anni, aderiva al Fronte della Gioventù del Movimento Sociale Italiano, partito nato dalle ceneri di quello fascista alla fine della Seconda Guerra Mondiale, la cui fiamma arde ancora nel simbolo di Fratelli d’Italia. Si doveva fare in fretta e non solo perché le questioni che questo governo si appresta ad affrontare incombono – la guerra in Ucraina, il prezzo dell’energia, il PNRR, il bilancio – ma anche per l’approssimarsi di un anniversario infausto della storia italiana: la Marcia su Roma.
Il 28 ottobre del 1922 migliaia di fascisti conclusero il raduno che andava avanti da alcuni giorni tra l’Umbria e il Lazio, pronti alla calata su Roma, compiutasi poi il 30 ottobre. Il colpo di Stato, poiché questa era l’intenzione di Mussolini e dei suoi sodali, non ebbe luogo; si trasformò nella sfilata per celebrare l’incarico di formare il nuovo governo da parte di Vittorio Emanuele III a Benito Mussolini. Da male armati, disorganizzati, disinformati e privi del proprio capo politico sul campo – Mussolini restò infatti a Milano fino alla comunicazione delle intenzioni del re – gli squadristi, vittoriosi senza sparare un colpo, sfogarono sulla città di Roma la frustrazione accumulata per l’incertezza dell’esito del colpo di mano, con atti di vandalismo, aggressioni a personalità comuniste e socialiste, somministrazioni di bastonature e olio di ricino. Le violenze provocarono svariate morti.
L’esercito italiano non intervenne. Fu lo stesso Vittorio Emanuele III a impedirne l’azione rifiutandosi di firmare, la mattina del 28 ottobre stesso, il decreto per lo stato di assedio che avrebbe disperso le milizie fasciste e, presumibilmente, le ambizioni autoritarie dell’ex socialista romagnolo.
Di tutti gli orrori intercorsi nei vent’anni di dittatura, la persecuzione e il confino per gli uomini omosessuali – all’epoca detti invertiti e pederasti – fu uno dei più taciuti. Nel progetto del Codice Rocco del 1927 si discusse l’introduzione del reato di omosessualità. Prima della sua promulgazione nel 1930, il riferimento venne tolto «perché per fortuna e orgoglio dell’Italia il vizio abominevole che ne darebbe vita non è così diffuso tra noi da giustificare l’intervento del legislatore, nei congrui casi può ricorrere l’applicazione delle più severe sanzioni relative ai diritti di violenza carnale, corruzione di minorenni o offesa al pudore».
«Anche ora, la parola chiave resta il silenzio», dice Alessandro Tampieri, attore e autore dell’opera teatrale Confino. «In Italia abbiamo un problema con le parole, con le definizioni precise. Una maniera subdola di negare la realtà, il sottovoce del confessionale. All’epoca si scelse di non includere il reato di omosessualità nel Codice Rocco per non ammetterne l’esistenza, ma si decise contestualmente di punirla. Ora sentiamo frasi come “ci sono altre priorità” e ci portiamo dietro una politica che sui nostri diritti continua a lavarsi le mani».
Parliamo del suo spettacolo, andato in scena a New York nella primavera di quest’anno per l’Italian Theater Festival, al Center for Italian Modern Art. Ideato dopo un soggiorno a Matera, vide il suo debutto proprio al Cassero nel 2018 durante l’esposizione Adelmo e gli altri, mostra curata da Cristoforo Magistro sui confinati materani, di cui ha scovato le storie attingendo agli atti giudiziari conservati negli archivi di Stato di Potenza e Matera.
«Il recupero dei documenti che ha fatto Magistro è stato centrale per la mia scrittura. Arrivavano nel materano da tutta Italia: da Venezia, dalla Lombardia, da Livorno… Tuttavia, non ho raccontato una storia che fosse riconoscibile, le fonti sono frammentarie e volevo che tutti potessero riconoscersi senza creare un eroe. Nello spettacolo uso frasi prese da documenti e lettere, ma c’è anche tanto di mio, dei miei ricordi di bambino. Ho riempito i vuoti con le mie parole e con il linguaggio teatrale». Nel 2008 uscì In Italia sono tutti maschi, di De Santis e Colaone, graphic novel che ha contribuito moltissimo a far parlare del tema anche all’esterno della comunità LGBTQ+ e che si concentra anch’esso su un luogo specifico, le isole Tremiti. «Alle Tremiti andavano i catanesi, principalmente. Il questore della città era particolarmente accanito: mancando una legge, ognuno faceva come preferiva. Per questo nei documenti degli archivi di Stato troviamo grande disomogeneità nei numeri e nei trattamenti». I confinati erano per la maggior parte analfabeti, ma non perché non esistessero, naturalmente, omosessuali borghesi o appartenenti a un ceto elevato. Era una questione di classe: «Difficilmente i ricchi venivano confinati. In quel caso c’erano i richiami. E poi la pratica della delazione: se facevi il nome del tuo amante, ti salvavi.» Il confino poteva durare fino a cinque anni. Per questo e per le difficili condizioni di vita a cui erano costretti, gli esiliati crearono delle comunità affettive, reti di supporto, relazioni. Quando cominciò la guerra, gli uomini vennero via via rimandati a casa e affidati al controllo della Polizia oppure arruolati nell’esercito. Per quello erano abbastanza maschi. Tornati nei luoghi di origine, spesso furono emarginati dalla famiglia e dalla comunità, incapacitati a parlare di ciò che avevano vissuto. Pochissimi ruppero il silenzio sul confino, alcune delle loro storie sono raccontate in La città e l’isola, di Goretti e Giartosio.
Nel suo discorso del 13 ottobre, Liliana Segre ha riflettuto con pacatezza dell’ironia che portava lei, nel 1938 bambina ebrea vittima delle leggi razziali e sopravvissuta alla deportazione, a parlare dallo scranno della Presidenza del Senato proprio nel mese del centenario della Marcia su Roma. È stata molto apprezzata e condivisa, perché il legittimo timore per le nostre istituzioni democratiche – quella Repubblica e quella Costituzione citate nel giuramento di Meloni – nelle mani di un’erede naturale della tradizione fascista rischia di sciogliersi nell’annacquamento che le parole e il loro significato subiscono già da tempo. Ha ancora senso parlare di fascismo? Di quale fascismo parliamo, di quello storico o delle forme che il fascismo ha preso dopo la sua caduta?
È chiaro che la sovrapposizione sarebbe un errore e ci porterebbe a mirare l’obiettivo sbagliato. Ma è altrettanto chiaro dalla lista dei ministeri del nuovo governo che questo centenario vive nel nostro presente: il Ministero della Famiglia, natalità e pari opportunità, assegnato a Eugenia Roccella, nota antiabortista, ex portavoce del Family Day e nemica dichiarata delle persone LGBTQ+, ne è un esempio plastico.
«C’è stato molto interesse a NY per il mio spettacolo», mi ha detto Alessandro alla fine della nostra chiacchierata, «non conoscevano la vicenda, ne sono stati colpiti, soprattutto alla luce degli attacchi ai diritti civili che gli Usa stanno attraversando».
Il disseppellimento delle nostre radici è in corso e la nostra storia è più importante adesso, perché non siano quelle fasciste, di radici, ad attecchire ancora.
Per approfondire
In Italia sono tutti maschi di Sara Colaone e Luca De Santis (Oblomov, 2008)
La città e l’isola di Gianfranco Goretti e Tommaso Giartosio (Donzelli, 2006)
Perseguitaci