È LA METAMORFOSI LA SOLA POSSIBILITÀ

Si racconta che Raimondo di Sangro, Principe di Sansevero, scienziato, artista e alchimista, decise un giorno di provare a sconfiggere la morte. Incaricò un suo servitore di tagliarlo a pezzi e di rinchiuderlo in un sarcofago da cui, se il rituale fosse andato a buon fine, sarebbe uscito vivo e immortale: what is dead may never die. Ma il fidato servitore sbagliò qualcosa e l’incantesimo si rivelò un fallimento: correva l’anno 1771. Con metodi altrettanto magici, decisamente meno invasivi ma più efficaci, Irene Serini è riuscita lo scorso fine settimana a riportare in vita Mario Mieli sul palco dei Teatri di Vita di Bologna, nel suo terzo studio dedicato all’intellettuale milanese.

L’azione scenica si svolge principalmente nel cerchio delimitato dalle sedute del pubblico, disposte sul palco dietro al sipario chiuso.  Il monologo procede per circa un’ora a una progressiva definizione, che non acquista mai i contorni netti di una narrazione biografica, della figura del giovane intellettuale: la persona loquens è qualcuno che, come molti di noi spettatori, conosceva Mieli solo superficialmente o non lo conosceva affatto, finché qualcosa della sua eredità – siano i suoi libri, siano gli aneddoti serbati da chi lo ha incontrato – non è entrata nella sua orbita.

Il testo è complesso, stratificato. Le parole guidano gli spettatori in un processo di immedesimazione con la persona: la figura e l’opera di Mieli sono ricostruite per frammenti e associate alle reazioni ora più entusiaste, ora più riflessive, che scatenano in lei.

Particolarmente coinvolgente è la capacità dell’interprete di dosare la carica emotiva con una recitazione dal ritmo sempre vario, che alterna momenti di frenetico soliloquio a interlocuzioni dissacranti con il pubblico, fino al commovente finale a sorpresa.   

Nel complesso l’opera risulta più simile a un quadro astratto eccezionalmente vivido che a un mosaico storico. E, proprio per questo, funziona. Perché, nel destinare lo studio a un pubblico di non esperti, l’autrice-attrice compie l’unica scelta possibile per evitare di scadere nel didascalismo senza sacrificare la chiarezza: togliere qualcosa (ma solo qualcosa) dalla contestualizzazione storica, e comunicare la portata sovversiva di Mieli puntando insieme a lui il dito ai paradossi dell’organizzazione “normale” della società.

La provvisorietà programmatica dello spettacolo, che è studio e perciò opera in divenire, contribuisce a legittimare la selezione del materiale: poco Marx e tanta magia, è vero, ma (forse) solo fino alla prossima puntata.

Vuoi raccontare ai lettori della Falla la storia di questo spettacolo?

Il primo studio ha debuttato al festival milanese IT nel 2017. Poi, nello stesso anno, abbiamo presentato ad AUTOFF un secondo studio un po’ più lungo, della durata di 40 minuti. E ora questo, che è arrivato a durare un’ora! La nostra prima intenzione era quella di condensare tutto in uno spettacolo di 30 minuti, un minuto per ogni anno di vita di Mario. Ma il proposito si è dimostrato irrealizzabile fin da subito, un po’ perché il risultato era troppo condensato, un po’ perché è difficile convincere il pubblico a pagare un biglietto per uno spettacolo di mezz’ora.

Su quali fonti ti sei documentata?

Ho trovato estremamente utile l’ultimo libro scritto da Mieli, Il risveglio dei faraoni, che ha dei risvolti quasi mistici. È un testo lontanissimo dagli Elementi di critica omosessuale, che pure ho utilizzato [con citazioni anche verbatim, ndR]. Mi sono ispirata anche a Oro, eros e armonia, una raccolta di interviste, e al corpus delle sue poesie. Molto interessante un’intervista quasi casuale, che concesse a casa di Guido Tosi a Roma nel Natale dell’ ’82, il suo ultimo Natale: racconta la sua visione dell’evoluzione della società verso il magico, di una rivoluzione “mistica” che potrebbe sostituire quella politica.

È a questo risvolto ultimo che si riferisce il titolo del tuo spettacolo, “Abracadabra”?

Il titolo allude soprattutto all’interesse di Mieli per l’alchimia, intesa come inno alla trasformazione continua, ma anche riconoscimento del potere di elevazione spirituale e intellettuale dato dalla coesistenza degli opposti.

Nel tuo spettacolo emerge chiaramente il tuo rammarico per il fatto che Mieli sia un autore trascurato, anche all’interno del movimento LGBT+.

Sì, credo che sia stato poco letto ai tempi e poco disseminato. In un certo senso il personaggio ha fagocitato le idee: in TV gli chiedevano come mai si vestisse da donna, non della sua filosofia. C’è anche il fattore familiare: Mieli veniva da una famiglia assai benestante e, se da parte loro ci fosse stata la volontà di valorizzarne l’opera e la memoria, la situazione forse sarebbe diversa. Da un certo punto di vista è comprensibile, vista anche la tragicità del lutto, che la famiglia non si sia sbracciata per fare promozione. Ma Il risveglio dei faraoni è un libro pressoché introvabile, ed è un peccato.

Per quanto riguarda il movimento: le sue idee sono obiettivamente radicali, complicate e inadatte a una politica di piccoli passi. Come fai a lottare per il matrimonio egualitario avendo nel canone un autore che intende smantellare l’istituzione stessa del matrimonio?

In effetti parlare di transessualità universale è una cosa un po’ estrema.

Ovviamente il suo concetto di transessualità non è quello medico, ma è da intendersi come fondamentale compresenza di maschile e femminile in ogni individuo. Però certo, anche questo per chi fa un percorso da un estremo a un altro può essere disturbante. Ho affrontato la tematica in un mio lavoro, Variabili Umane.

Molto di quanto Mieli ha scritto, come lui stesso ammette, deriva dalla sua esperienza personale. Secondo te si può riuscire davvero a comunicare Mieli a un pubblico generalista, che non si è mai posto questioni di genere e di orientamento sessuale?

È questa la sfida, ed è per questo che nel mio spettacolo affronto il discorso su vari livelli. Quando scrivi per il teatro devi essere pronto a parlare per tutti, anche per la bambina di dieci anni presente in sala [c’era davvero, NdR]. L’importante è che le frasi, le suggestioni creino un corto-circuito nel modo automatico in cui pensiamo al genere. Ciascuno è agganciato da un dettaglio verbale diverso: tu sei rimasto colpito dalla citazione del “trip schizofrenico”, mentre alcune signore ho visto che ridevano quando dico “maschio-femmina, maschio-femmina: chissà perché sempre prima il maschio”.  

Un’ultima curiosità: la canzone su cui si apre lo spettacolo, qual è?

La Natura dei Baustelle.