LA VITA DELLA POPOLAZIONE LATINX CHE IGNORI E TI PIACERÀ DA MORIRE

C’è un gioiello nascosto nel mare dello streaming a pagamento di cui difficilmente si legge nei siti mainstream sulle serie tv, ma che suggerisco di recuperare per emanciparsi dallo sguardo spesso stereotipato delle grandi produzioni americane. S’intitola Vida ed è una serie in 3 stagioni per un totale di 22 episodi (dalla godibilissima durata di 30 minuti l’uno), disponibile su Starz Play – piattaforma a cui vale la pena di abbonarsi anche solo per questa serie.

Scritta da Tanya Saracho (Looking, Le regole del delitto perfetto), Vida è ambientata in uno dei quartieri latinx di Los Angeles – Boyle Heights – con una forte presenza della popolazione di origine messicana. L’ambientazione, centrale rispetto alla trama della serie, è resa autentica da un cast interamente latinx e a maggioranza queer o LGBTQIAP+, a dimostrazione di quanto cambi un prodotto televisivo quando la rappresentazione non è filtrata dalla solita lente bianca ed eteronormata. 

La trama, in sé, non costituisce un elemento di novità: due sorelle – Emma e Linda Hernandez – si ritrovano, dopo il funerale della madre, a dover gestire l’eredità di un bar in un quartiere estraneo al loro white lifestyle, scoprendo poi che la madre si era da poco risposata con una donna. Le due protagoniste, diverse di carattere quanto nello stile di vita, inizialmente hanno in comune solo la non appartenenza alla vita del quartiere in cui sono cresciute e, pertanto, la difficoltà nel trovarsi immerse in un tessuto sociale tanto più ricco di cultura quanto più povero sulla scala economica della grande Los Angeles.

A far loro da antagoniste troviamo due donne di generazioni diverse che, a modo loro, rappresentano quella cultura latinx così estranea a Emma e Linda: Eddy, la moglie della madre appena defunta, che col suo look da butch anni ’90 fa tenerezza quando si scontra con la fluidità di genere diffusa delle nuove generazioni, e Mari, giovane attivista che si batte contro la gentrificazione del quartiere. Grazie al suo personaggio affrontiamo le microaggressioni di una cultura patriarcale molto presente e riusciamo anche a gettare un breve sguardo sulla realtà complicata e dolorosa che ancora oggi accomuna troppe famiglie di immigrazione messicana

A rendere la serie indimenticabile sono lo spessore dei personaggi (a cominciare da queste quattro donne, che meriterebbero uno spin-off ciascuna), diverse scene divertenti e siparietti spassosi, e lo spaccato sociale di un mondo raramente così ben rappresentato nelle sue sfaccettature, soprattutto per l’immaginario italiano che sulla cultura latinx è ancora fermo a Ugly Betty.

Non guasta, ed è bene sottolinearlo, tanto buon sesso – soprattutto tra donne. Sesso casuale e sesso romantico, sesso compensativo e a volte compulsivo; in ogni caso non quel sesso artefatto a cui sono in gran parte ancora fermi il cinema e la televisione ma un sesso inedito, consapevole, molto queer e innegabilmente vivo.

È una serie femminile nel senso più femminista del termine, le cui due anime – le donne e la massificazione della cultura latinx – sono efficacemente rappresentate nella foto di locandina della terza stagione: la rivisitazione di una famosa opera di Frida Kahlo, l’artista messicana più conosciuta al mondo, diventata ormai un brand, simbolo di un femminismo da settimanale patinato che però, nel corso di tutta la serie, non viene nominata una sola volta.