I DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE NELLA COMUNITÀ LGBT+
Anoressia nervosa, bulimia nervosa, sindrome da alimentazione incontrollata, sono solo le forme più note di una serie di disturbi in rapida ascesa, soprattutto nelle fasce più giovani della popolazione. Il tasso di mortalità che si accompagna ai casi più gravi di queste patologie è estremamente preoccupante, variando tra il 5 e il 10%, ed è, secondo quanto dichiarato dall’Oms, la maggiore causa di morte tra adolescenti.
La scarsità di studi nel settore, su scala nazionale, da parte della ricerca nostrana, costringe a uno sguardo verso lavori di ambito europeo e statunitense, facendo scattare immediatamente un campanello d’allarme sulle percentuali. Non solo uno studio belga del 2003 ha evidenziato che appena un terzo dei pazienti affetti da anoressia nervosa e il 6% delle persone bulimiche arrivano all’attenzione del sistema sanitario, ma le percentuali italiane su base di genere, che stimano tra i colpiti il 95,9% donne e il 4,1% uomini, mettono in luce un forte divario rispetto a quelle europee circa la popolazione maschile, facendo sospettare che il dato sia sottostimato.
Proprio l’incremento dell’impatto di questi disturbi nell’ambito di minoranze specifiche ha spinto i ricercatori a focalizzarsi sulla loro diffusione all’interno della comunità LGBT+. Una revisione degli studi in materia, pubblicata nel 2017, ha preso in esame oltre 3600 articoli su studi empirici condotti tra il 2011 e il 2016, con lo scopo di verificare una tesi molto chiara: una sensibile disparità statistica tra quelle che vengono definite minoranze sessuali e il resto della popolazione, per quanto riguarda l’incidenza di disturbi alimentari, disordini del comportamento alimentare e controllo della forma corporea.
L’analisi, condotta in prima istanza sui dati epidemiologici, ha messo in luce un distacco da 1 fino anche a 3 punti percentuali rispetto alla presenza di disturbi analoghi in tutte le ricerche sulla popolazione generale prese in esame. In particolare, i ragazzi identificati come sexual minority males (categoria che comprende un insieme di soggetti che, in risposta a questionari somministrati, si sono identificati come gay, bisex o gender non-conforming – quando la ricerca non avesse un focus specifico sulla questione di genere), emergono come principale categoria a rischio.
La letteratura scientifica a riguardo è già consistente e ha permesso di isolare due modelli teorici, intersecabili, per analizzare il problema: uno basato su fattori socioculturali e l’altro sul concetto di minority stress.
Il secondo modello si concentra su come l’esposizione prolungata a fattori di stress, quali vittimizzazione, discriminazione, bullismo e, non ultima, un’interiorizzazione dello stigma omofobico, siano strettamente correlati a un aumento vertiginoso del rischio di sviluppare disturbi alimentari, in particolare attraverso un preciso desiderio di controllo sul proprio corpo che produce e nutre un fortissimo stress autoindotto (Meyer, 2003).
Ancora pochi si rivelano essere gli studi su queste patologie con un focus particolare sulle persone trans, malgrado dati a riguardo siano ricavabili dai lavori riguardanti la comunità LGBT+. Una ricerca dell’Università del Connecticut pubblicata nel 2017, tuttavia, si è dedicata con attenzione alla profilazione del rischio d’insorgenza tra persone trans tra i 14 e i 25 anni. L’ipotesi di partenza ha preso le mosse dall’incidenza di comportamenti volti al controllo della forma corporea, rilevando come il rapporto con l’alimentazione potesse essere utilizzato allo scopo di avvicinare il proprio aspetto a quello del genere con cui ci si identifica.
Partendo dal presupposto che non esiste una cura efficace o un trattamento risolutivo per quanto riguarda i disturbi alimentari, per lo più affrontati in ambito psichiatrico con antidepressivi (utili ad attenuare alcuni sintomi) e terapia psicologica, l’unico campo di battaglia valido per arginare il fenomeno sembra essere quello della prevenzione.
Di fortunata applicazione per la comunità LGBT+ sembra essere il Pride Body Project (elaborato sulla base del quasi omonimo Body Project, rivolto principalmente a donne eterosessuali), un progetto consistente nella selezione, mediante questionari, di una serie di soggetti idonei e a rischio, inseriti in gruppi di lavoro, lezioni dedicate e confronti personali, in un percorso sul lungo termine seguito da specialisti. Malgrado si tratti di attività ancora molto limitate geograficamente e poco applicate, i primi risultati sembrano indicare un’efficacia quantomeno per la diminuzione dell’insorgenza di disturbi dell’alimentazione, suggerendo che la prevenzione possa essere la direzione giusta.
pubblicato sul numero 42 della Falla, febbraio 2019
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