PRIMI PASSI TRA LESBISMO, FEMMINISMO E DISABILITÀ
di Francesca Talozzi – Casa della Donna, Pisa
Ognun* di noi attribuisce alla parola “resistenza” un proprio significato: c’è chi resiste in condizioni di precarietà economica, chi lo fa per un credo politico, chi in situazioni di fame e di sete, chi per lenire il dolore, sia esso fisico o emotivo, chi per autodeterminarsi al meglio. Si resiste in maniera istintiva o ragionata. Si cerca, con il resistere, di creare, ampliare o condividere (o tutte e tre le opzioni) un nostro spazio di vita e, dunque, di libertà. È chiaro che l’atto del resistere preveda l’avere individuato un nemico e più l’individuazione è chiara e netta, più l’azione di resistenza risulta efficace. Il mio nemico è eteronormodotat*. Un neologismo pesante, a cui dovrei aggiungerne un altro: lesbonormodotata.
Andiamo per gradi: come persone disabili viviamo, oserei dire da sempre, in una società arretrata dal punto di vista sociale e culturale. Qualsiasi aspetto della nostra esistenza, sia esso relativo alle cure oppure ai cosiddetti “atti quotidiani della vita” va conquistato, contrattato, organizzato con grande capacità di adattamento e previsione. Ci coinvolge completamente e necessita di tutte le energie a nostra disposizione. Questa è la nostra prima forma di resistenza. Resistere alle difficoltà, dovute spesso a mancanza di comprensione e a una distorta visione di cosa significhi essere disabile, per provare a esistere e a vivere.
La disabilità, di qualunque natura sia, ci impone di riformulare le complessità del corpo sia fisico sia emotivo, posizionandolo in un territorio spesso arido e isolato. In quel territorio non si trova alcun strumento, alcuna rappresentazione nella quale identificarsi e sentirsi a casa, alcun modello di riferimento. Ed è laggiù che inventiamo la nostra resistenza.
Pur nelle differenze che le persone disabili portano con sé e pur nella difficoltà di formulare un’unica inclusiva definizione del nostro esistere, abbiamo tutti e tutte una cosa in comune: il nostro corpo, fisico ed emotivo, non è collocabile in un modello dominante, in uno schema di perfezione, efficienza, riconoscibilità. Siamo fuori, anzi sotto, talmente sotto da essere schiacciat*, invisibil*. Ed ecco che il nostro corpo si fa resistente, da spazio intimo diventa politico.
Aggiungo alla visione una seconda lente: un po’ come quando si va dall’oculista e per misurare la vista si indossano quegli strani occhiali, spesso fastidiosi, e si aggiungono lenti per mettere a fuoco. La nostra prima lente è la disabilità, la seconda l’essere donna.
In questo territorio dove ci ritroviamo spesso relegat* dal pensiero normodotato dominante, il mio essere nata femmina ha aggiunto discriminazione a discriminazione.
Parlare di donne disabili è una rarità e parlarne poi in termini, per esempio, di sessualità, desiderio, fisicità, bellezza, praticamente impossibile. Ecco che, allora, il mio territorio, quello che condivido con il resto della comunità disabile, diviene ancora più silenzioso: qui la resistenza si fa dura e le parole da usare sono spesso introvabili. Il continuare a cercare è l’unica forma che mi fa esistere.
Dall’ultimo report diffuso dalla Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap (Fish) in occasione dell’8 marzo, emerge un quadro allarmante rispetto alla discriminazione multipla che subiscono le donne con disabilità.
Siamo maggiormente soggette alla violenza sessuale, rispetto alle donne senza disabilità siamo più esposte alla violenza psicologica e allo stalking (+10%). Ancor più allarmanti sono i dati dell’indagine Violence, Emergence, Recognition and Awareness (Vera), promossa da Fish e Differenza Donna: oltre il 10% delle donne disabili che hanno compilato il questionario – attualmente 450 – ha affermato di essere stata vittima di stupro. Il corpo intimo e fragile, disabile e sofferente, a volte inconsapevole, diviene lo spazio della più odiosa delle prevaricazioni maschili, figlie di quel retrivo patriarcato che fa dello stupratore il suo braccio armato.
Sono lesbica e femminista e questa è la terza e ultima lente che applico a questi strani occhiali. Ultima, ma non meno importante. Se il sentir parlare di donne disabili è cosa rara, decisamente assente è qualsiasi riferimento a noi, lesbiche disabili. Dove saremmo rintanate in quel territorio desolato e desolante, nel quale non si può parlare di amore, sesso, sessualità, desiderio sessuale, dove gli spazi per scoprire, capire, incontrarsi e innamorarsi, sono tutt’altro che luoghi aperti e accessibili?
Noi lesbiche disabili viviamo in corpi e identità completamente disciolte. Siamo entità leggere e trasparenti che non trovano alcuno spazio di confronto, riflessione e scambio.
Di fatto, né il movimento femminista né il movimento lesbico hanno, a tutt’oggi, prodotto un pensiero convincente sulle donne con disabilità, un pensiero che aiuti ad affrontare la presenza nella società dei nostri corpi fisici e simbolici. Eppure io mi definisco una lesbo-femminista disabile.
Nel mio definirmi, intersecando all’interno del mio corpo, fisico e simbolico, le mie molteplici identità, sta il mio primo atto di resistenza. Ognuna di queste identità e tutte e tre insieme mi danno consapevolezza e forza, tuttavia quella forza e consapevolezza, per giungere a pieno compimento, hanno necessità di essere e agire in uno spazio collettivo. Un luogo, ancora una volta fisico e simbolico, dove le mie tre lenti diventino superflue e io possa essere ed esistere in tutta la mia interezza e complessità.
Da dove partire? Dal punto in cui siamo partite tutte e tutti: il diritto all’autodeterminazione. È un diritto necessario e vitale e, aggiungo, anche un dovere. Non è un atto di coraggio e fermezza il nostro uscire comunque di casa e compiere ogni giorno piccoli gesti di autonomia e affermazione di sé, ma piuttosto la rivendicazione e l’esercizio di un diritto sacrosanto, un diritto umano.
Lo sappiamo, lottare per la propria autodeterminazione e libertà ha in sé un imprevisto elemento rivoluzionario: tutto va creato, va inventato, superando o addirittura distruggendo modelli e stereotipi. Tuttavia questa battaglia non la possiamo vincere in solitudine, abbiamo bisogno di pensare e agire insieme, abbiamo bisogno di costruire nuove forme collettive di azione. Non abbiamo bisogno di integrazione ma di (ri)pensare tutt* insieme luoghi, fisici e simbolici, che siano davvero inclusivi e aperti.
Io sono pronta, e voi?
pubblicato sul numero 44 della Falla, aprile 2019
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