di Elisa Manici

Le diversità arricchiscono. Stonewall l’hanno fatta le persone più diverse dalla norma. All bodies are good bodies. Riot not diets. Parole molto belle. Quale frocio o lesbica che si considera un attivista e/o che ha fatto le letture giuste non le sottoscriverebbe?

La comunità LGBTQ, almeno nella sua parte politicizzata, riconosce che essere giudicanti o trattare con disprezzo gli altri, in qualunque modo sia fatto il loro corpo, fa il gioco degli omofobi.

Questo nella teoria, e nel comportamento di alcuni individui particolarmente illuminati.

La realtà è che, in alcune zone dell’occidente contemporaneo, è ormai molto più stigmatizzante essere grassi che queer. Nel mondo LGBTQ, nella misura in cui è allineato ai canoni estetici dominanti, c’è molto disdegno per la grassezza.

E in questo ci allineiamo al mondo mainstream. C’è un’ultima categoria di persone che può essere insultata da chiunque, senza alcuna remora o rimorso di coscienza: le persone grasse. Chi non si sognerebbe mai di dare del negro, del mongolo, del terrone a qualcun’altro, non ha problemi a esprimere pareri agghiaccianti sulle persone grasse. Già, perché il grasso, oltre a essere diventato sinonimo di bruttezza, viene visto come segnale di debolezza di carattere, pigrizia, incapacità di controllo delle proprie pulsioni. In due parole, come segno di inadeguatezza e di sconfitta esistenziale. Certo, c’è la comunità ursina, che ha fatto della rotondità una delle sue cifre estetiche, ma, anche se è molto nota, rimane pur sempre una sottocultura.

Ci sono voluti i fatti di cronaca dei mesi scorsi -il ragazzino violentato col compressore e l’adolescente insultata via Twitter dall’esimio vice presidente del senato Gasparri- per stimolare qualche embrione di riflessione pubblica sul delirio dello stigma sociale che pesa sulla grassezza. Poi, certo, restano tutti quelli che si aggrappano alla questione della salute, come se sostenere che tutti gli esseri umani, qualunque sia il loro aspetto, abbiano il diritto di vivere sereni, fosse automaticamente un’incitazione all’obesità patologica.

Nella mia esperienza di attivista LGBTQ ne ho sentite di tutti i colori, non solo dalle sciampiste. La lesbica femminista che, in disaccordo con una fat queer activist, la liquida -non in sua presenza- con “che si strozzi con una fila di salsicce”. Il gay iper politicizzato che annuncia sui social: “ho la dissenteria e non so il perché, ma almeno morirò magra”, tra il plauso delle amikeh. E chi più ne ha, ne metta. Continui giudizi estetici che si trasformano in sentenze sulle qualità umane.

Sappiate che noi, froci e lesbiche grassi, vi ascoltiamo.

pubblicato sul numero 0 della Falla – dicembre 2014.

foto: www.self.com, queerfatfemme.com