Continua la rassegna cinematografica di Gender Bender 2016 con un importante documentario che mostra parte del percorso di un 19enne transgender californiano: Real Boy. Diretta da Shaleece Haas (direttrice e produttrice di documentari di Oakland) la pellicola si è accaparrata numerosissimi premi tra i quali: miglior documentario al Giffoni Film Festival 2016; Queer Youth price all’Oslo/Fusion international film festival 2016; best editing al Woodstock Film Festival 2016.
La storia che viene raccontata da questo documentario è una di quelle che difficilmente non restano impresse nella memoria dello spettatore, se non altro per la semplice intensità con cui viene narrata. Bennet Wallace, nato Rachel, è un transgender di diciannove anni col sogno della musica in cerca di uno spazio nel mondo e nella società, che si ritaglia a partire dall’affermazione della propria identità di genere.
“It’s Friday July 27 and I’m a little over two month on testosterone. Two month and six days. And my name is Ben ‘cause I change it” ci dice in un video su YouTube, chiosando il tutto con un sorriso. Una delle sue paure più grandi, racconta, era la percezione di essere solo nella propria condizione, dissimulata tramite internet che lo ha messo in contatto con altri come lui e in particolare con Dylan, che diverrà il suo miglior amico, e grazie al quale troverà la forza di affrontare un difficile coming out con la madre: “This is how I’m going to explain it. I’m literally a boy, with the wrong body parts”: lo scontro, il conflitto.
Qui si apre un altro percorso importante che il documentario mette in evidenza, quello della madre, appunto, che, da un apatico rifiuto delle circostanze, muoverà passi, prima incerti poi decisi, verso la comprensione e l’accettazione del figlio che dichiara alla telecamera: “I just want to be loved by my family and I think that for my family is not that simple… I mean is complicated for them”. Non è stato facile, per Ben, vivere la propria situazione e non poche sono le zone oscure che il senso di solitudine ed abbandono hanno impresso nella sua anima, che si sono tramutate in tendenze autodistruttive che vanno dall’autolesione all’abuso di alcol. Eppure, nella difficoltà, a una riunione per ex alcolisti si verifica l’evento che forse più degli altri gli cambierà la vita: la conoscenza con uno dei suoi idoli e futuri mentori, il musicista transgender Joe Stevens. Da qui un sodalizio che si rivelerà essenziale per entrambi e che dà origine ad alcune delle scene più toccanti della pellicola, come quella in cui Joe mostra a Ben come sistemarsi la barba allo specchio o gli insegna a mettere la cravatta. La musica, in particolare quella composta con Joe, diviene un mezzo d’espressione potente e alcune delle canzoni di Ben fanno da colonna sonora al film.
Foto sbiadite e video ci mostrano la piccola Rachel giocare a baseball ed esultare per aver ricevuto in regalo una giacca, o mostrare il bicipite; evidenziano come Rachel fosse già Ben. Lo stesso Ben che dichiara, in una canzone del suo album dal titolo Welcome home, “I am who I’ve been meant to be since I was born” e che trasferitosi al college con Dylan (col quale condivide le fasi del percorso), aspetta con ansia l’operazione che gli permetterà di non fasciarsi più quell’ingombrante seno che non gli appartiene.
Questa è una storia di ricerca di sé e di un viaggio on the road verso la felicità che nessuno dovrebbe negarsi, non importa quanto possa costare. Una storia che potrebbe aiutare molti altri Ben ma più in generale ognuno di noi, tanta è la forza espressiva che Shaleece Haas è riuscita a trasmettere.
Per saperne di più
Il programma di cinema di Gender Bender 2016
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