«Penso che tu non abbia letto fino alla fine la storia di Edgar Allan Poe, vero? […] L’americano ha fatto morire Shahrazād».

Le Mille e una notte è la più famosa raccolta di novelle della letteratura araba, il suo fascino esotico ha alimentato per secoli le fantasie occidentali verso l’Oriente. I racconti, elaborati da vari autori fra il XV e il XVIII secolo, si sviluppano dentro a una cornice narrativa politicamente intrigante: il re Shahriyār, per vendicarsi della moglie infedele, uccide dopo la prima notte ogni nuova sposa. Shahrazād escogita un piano per interrompere la strage, intrattenendolo con una storia senza fine e salvandosi così grazie alla sua intelligenza.

Possiamo immaginare lo sconforto di Fatema Mernissi, scrittrice e sociologa all’Università di Rabat impegnata nella ricerca e nell’insegnamento in ambito internazionale, nell’apprendere che la sua «politic damsel» era stata assassinata dagli occidentali.

Shahrazād compie il primo viaggio lontano dalle sue terre nel 1700 grazie alla traduzione del francese Galland, ma è relegata ai costumi eleganti di una Versailles tutta da guardare. Depredata delle caratteristiche di guerriera, questa Shahrazād risulta molto meno politica dell’originale: censurata nelle sue narrazioni più esplicite, è una concubina seducente che usa come espedienti le sue capacità oratorie. Perde perciò il potere della donna brillante, colta, che vince una battaglia del tutto intellettuale, dove la mente è la più potente arma erotica. 

Spogliata delle sue risorse, viene infine uccisa da Poe in un suo racconto, unico autore che sembrava averne colto lo spirito originario.

Mernissi scriveva: «Descrivimi il tuo harem e ti dirò chi sei». L’espressività con cui i giornalisti occidentali reagivano a questa parola esoterica la portò a indagare la nostra concezione di gineceo arabo. 

Troviamo le fantasticherie occidentali esposte anche nei musei: il Bagno turco di Ingres, le varie Odalische di Matisse o L’harem di Picasso ne sono degli esempi. Esempi dove, nell’ottica occidentale, le donne sono sensuali perché nude e vulnerabili. La nudità è il loro fascino e la loro prigione. 

La sensualità e la forza di Shahrazad si rivelano, invece, nelle parole. In arabo il significato di kiyāsa, alla lettera “negoziare”, è deliberatamente ambiguo: designa il rapporto sessuale o la comunicazione, la seduzione vive nel dialogo. Nella traduzione occidentale questo passaggio non era così esplicito, la donna intelligente intimidiva, mentre nuda non risultava pericolosa ed era dunque attraente.

Poe si sbarazza dell’anomalo esempio di coesistenza fra intelligenza e attrazione, ma non è l’unico ad assassinare Shahrazād. 

Joumana Haddad, poetessa, giornalista e attivista libanese, in Ho ucciso Shahrazād. Confessioni di una donna araba arrabbiata, decostruisce lo stereotipo di donna sottomessa che deve ricorrere a uno stratagemma per salvarsi: «persuadi gli uomini […] e loro ti assolveranno».  

Shahrazād oggi viene citata senza essere contestualizzata: resistere, ribellarsi e riappropriarsi della propria identità non possono significare contrattare i propri diritti.

Non è certo la seduzione delle parole a non essere più attuale, il potere erotico del dialogo non viene messo in discussione. Nel 2008 Haddad ha fondato a Beirut Jasad (Corpo), una rivista rivoluzionaria, aspramente criticata proprio per i suoi contenuti espliciti, diretta da una donna che in lingua araba parla di corpo e sessualità senza scendere a compromessi. Già con le sue poesie, tradotte in numerose lingue, aveva espresso l’importanza di rivendicare la sua voce e attraverso la voce l’appartenenza del corpo (Corpo alla parola, parola al corpo). Proprio lei, nell’uccidere metaforicamente Shahrazād, l’ha resuscitata riappropriandosi del potere, seducente ma anche politico, delle parole.

Immagine in evidenza da laptrinhx.com, immagine nel testo da amazon.it