L’ASSILLANTE IMPERATIVO ALLA FELICITÀ

Mantenere un atteggiamento positivo anche nei momenti più difficili è sicuramente un buon modo per affrontare gli ostacoli della vita. Ma il «pensa positivo!», come ogni utile strumento psicologico, se usato indiscriminatamente rischia di diventare controproducente. Di fronte a una perdita di qualsiasi genere (la fine di una storia d’amore, un licenziamento, un lutto, etc…), la spinta sociale spesso pressante ad andare avanti, a concentrarsi sulle cose positive che si hanno, invece che su quelle che si sono perse, rischia di non lasciare spazio a una sana elaborazione del lutto. Si può arrivare all’estremo di negare qualsiasi emozione negativa, mantenendo in maniera compulsiva un atteggiamento di eccessiva e generalizzata felicità, che viene definita positività tossica. In una società che insegue ossessivamente l’efficienza e la produttività, in un periodo storico come quello che stiamo vivendo nel quale la pandemia ci ha messo continuamente di fronte a piccole e grandi perdite, non c’è spazio per fermarsi a riflettere e prendersi il tempo necessario per vivere la propria tristezza e la propria ansia. Anche la comunicazione attraverso i social media segue ormai questo assillante imperativo. Raramente, infatti, le persone condividono nei loro post i fallimenti, i momenti di difficoltà, così da dare l’impressione a chi li guarda di essere perennemente felici, di avere vite perfette. Si finisce per credere di essere le uniche al mondo a provare solitudine, ansia e tristezza. I sentimenti negativi vengono quindi censurati, considerati inutili, tanto che provare angoscia può essere percepito come segno di debolezza. Questo reiterato giudizio negativo sul dolore psicologico finisce per generare anche vergogna e senso di inadeguatezza a causa dell’incapacità di liberarsene e riuscire «pensare positivo». Smettendo di parlare del proprio dolore per paura di essere considerati pesanti, si finisce per creare distanza emotiva dagli altri proprio in un momento di fragilità in cui la rete sociale è uno degli strumenti fondamentali per elaborare la sofferenza, attraversarla e uscirne sinceramente rincuorati. Questa strategia di evitamento delle emozioni negative ha solo superficialmente un buon esito. Tutto il sommerso, il rimosso, rimane in circolo, schiacciato da categorici inneggiamenti alla felicità, causando disturbi di vario tipo, quali insonnia, abuso di sostanze, disturbi gastrointestinali, etc… Per riuscire a evitare di cadere nella trappola della positività tossica bisogna essere in grado di riconoscerne i segni, anche in se stesse. Può capitare che, di fronte a un’altra persona che ci sta parlando del suo dolore, capiti di dare facili consigli come «Devi superarlo», «Non devi farti abbattere», quasi a significare che la positività sia sempre l’unica risposta possibile in qualsiasi momento. Al contrario, a volte quello di cui ha bisogno una persona che soffre non sono consigli, ma ascolto e accoglienza del proprio dolore. Bisogna permettere alle altre persone, e a noi stesse, di prenderci il tempo della sofferenza, della frustrazione, della rabbia, che non coincide necessariamente con il lasciarsi abbattere.  Sentimenti negativi e positivi possono infatti convivere. Si può stare male per ciò che si è perso e nello stesso tempo riuscire a vedere le opportunità che si aprono grazie al cambiamento. Un sano approccio positivo permette di riconoscere e attraversare i nostri sentimenti negativi legittimandoli, sentendoci autentici, consapevoli che la sofferenza non è l’unica realtà, riformulando allo stesso tempo la perdita in una occasione di nuovo adattamento.

Immagine in evidenza: beyourownsunshinee.ca

Pubblicato sul numero 58 della Falla, ottobre 2020