PERSONE TRANS* E FERTILITÀ

Essere fertile  non si presentò come la prima delle mie preoccupazioni, quando cominciai ad assumere la terapia ormonale sostitutiva di testosterone. Di fronte all’agognato piano terapeutico, la possibilità di avere o meno, un giorno, dei figli biologici, non mi sembrava altro che un dettaglio che in quel momento non avevo alcun interesse a definire. Il concetto stesso di fertilità mi rimandava a un immaginario del tutto estraneo, che non sembrava avere alcun legame con la mia condizione di uomo trans*. Se è vero che la terapia ormonale non segna affatto la fine della possibilità di restare fertile – sono molti i casi documentati di persone trans* che, con un’interruzione programmata della terapia, hanno recuperato una buona fertilità anche dopo molti anni di assunzione di ormoni – è vero anche che gli effetti possono essere irreversibili e variare molto da persona a persona.  Secondo alcuni studi statunitensi, la percentuale di persone adulte trans* che si sarebbero poi pentite di non aver preso delle misure per la tutela della propria fertilità in tempi utili sarebbe del 51% per le donne trans (“The desire to have children and the preservation of fertility in transsexual women: A survey. International Journal of Transgenderism“, De Sutter, P., et al., 2002 )  e del 37.5% per gli uomini trans (“Reproductive wish in transsexual men, Human Reproduction“, Katrien Wierckx et al.). Percentuali molto alte che vengono confermate da uno studio pubblicato nel 2017 sempre negli Stati Uniti: su un campione di 72 adolescenti trans* in procinto di iniziare la terapia ormonale, soltanto 2 hanno deciso di agire per preservare la propria fertilità (“Low Fertility Preservation Utilization Among Transgender Youth, Journal of Adolescent Health“, Leena Nahata, et al.). A rendere significativi questi dati sono altri censimenti condotti questa volta su adolescenti e giovani cisgender in procinto di iniziare terapie mediche che potevano mettere a rischio la fertilità: a rivolgersi a metodi preventivi è approssimativamente il 25%(“Sperm cryopreservation practices among adolescent cancer patients at risk for infertility. Pediatr Hematol Oncol“, Klosky JL, Randolph ME, Navid F, et al.).  Il fatto che per alcune persone trans* il modo in cui il proprio corpo manifesta la fertilità possa essere causa di disforia potrebbe essere una motivazione, ma a influenzare questa scelta vi sono spesso fattori di natura economica e sociale. Sia la crioconservazione degli spermatozoi, che – soprattutto – quella degli ovociti, prevedono costi molto alti, che andrebbero in ogni caso a sommarsi ad altre spese inevitabili all’interno di un percorso di transizione. A questo si aggiunge la narrazione maggioritaria del corpo non conforme, non solo quello trans*, come necessariamente sterile o comunque estraneo alle tematiche riguardanti la procreazione, e la mancanza di visibilità di persone trans* che invece accolgano con orgoglio la loro fertilità. Un tipo di rappresentazione che si riflette talvolta tra operatrici e operatori sanitari che seguono le nostre transizioni e che trattano la nostra fertilità come un dettaglio trascurabile, quando non viene proposta la sterilizzazione come prassi, benché sia esplicito nelle linee guida del WPATH (World Professional Association for Transgender Health) che i medici informino e affrontino discussioni sulla fertilità «anche se i pazienti non sono interessati a questi problemi al momento del trattamento, il che può essere più comune nei pazienti più giovani». Quanto, quindi, la mia scelta di non congelare i miei ovuli, quanto la scelta di molte persone trans* di non preservare i propri gameti o addirittura di sottoporsi a interventi di sterilizzazione, oggi non più obbligatori, rappresenta una scelta libera e personale?

Pubblicato sul numero 59 della Falla, Novembre 2020