La compagnia The Baby Walk, nell’ambito del progetto Teatro Arcobaleno, ha portato sulla scena dell’Arena del Sole Peter Pan guarda sotto le gonne, spettacolo scritto e diretto da Livia Ferracchiati e Greta Cappelletti, liberamente ispirato a Peter Pan di James Matthew Barrie.

Occorre però fare delle distinzioni: il Peter Pan di Barrie è un bambino capace di volare, si rifiuta di crescere e vaga sull’Isola che non c’è in un’infanzia senza fine, non essendo mai nato. Quello di Ferracchiati non ha avuto la stessa sorte: è nato, ma nel corpo di una bambina. Stretta in un lungo abito rosa dai genitori, presenti sulla scena solo come voci assordanti, Alice Raffaelli – nei panni di Peter – gioca a calcio nei giardini di Kensington. Wendy (Linda Caridi), capelli scuri raccolti in una coda, fa roteare l’hula hoop fino alle vertigini, e quando il cerchio cade a terra, si accende una sigaretta. Preferisce tenere i capelli sciolti, perché la fanno sembrare più grande. Peter non sa se trova Wendy bella, ma un misterioso sentimento lo spinge a immaginare cene romantiche o a catapultare rospi per lei. Un misterioso sentimento, che le voci dei genitori fraintendono, lo spinge sempre ai giardini di Kensington, per costruire una casa sull’albero, la promessa di un’isola che non c’è, solo per lui e Wendy. Ma mai ci sarà l’isola, perché la ragazzina attrae e respinge Peter, stampa sulle sue labbra un bacio per gioco e strappa dalle proprie quelle dell’amico nelle scene finali: “Mai più, non lo fare mai più!”.

Il vero volto di Peter (Luciano Ariel Lanza) lo insegue come un’ombra, si scontra con il suo doppio femminile in una danza contorta, lo perseguita. L’unica a riconoscere i tratti di un ragazzino “non esattamente femmina ma precisamente maschio” è Tinker Bell (Chiara Leoncini), in Italia nota col nome di Campanellino. Anche lei non è rappresentata nel candido ruolo del Peter Pan classico: fatina in salopette di jeans e zainetto alato, non ha una bacchetta magica, legge riviste di politica fatata e non può, per non mettere in crisi chi fata non è, provare più di un sentimento alla volta (e il sentimento che sente più spesso è “un vago giramento di…”). Tinker Bell diventa Sibilla del futuro di Peter, che si cela nei fondi delle lattine di birra. Ma intanto, sotto la gonna di Wendy, per lui aperta dopo una penitenza, si svela il presente: il marchio imposto della femminilità. Questo dover diventare donna che oscilla come una lama sulla testa del ragazzino e precipita nella doccia fino a recidere, non, come lui sperava, i lunghi capelli, ma l’ultimo barlume di infanzia. Un rivolo di sangue cola lento dall’inguine di Peter, le Voci emozionate si accavallano: “Lei è una signorina, adesso!”.

L’immagine di un uomo alto e grande sul fondo delle lattine riflette il volto di Peter, stagliato al soffitto nella parte finale: “Sentiva qualcosa che non sapeva spiegare. E non poteva dire mancanza d’amore”. Non una mancanza d’amore da parte dei genitori, ma una mancanza di sé a se stesso, una gabbia a forma di corpo.

Immagine tratta dal sito Teatro Arcobaleno