L’EUROVISION 2019 A TEL AVIV E LA TRAPPOLA DEL PINKWASHING
di Elisa Manici
Frocie di tutto il mondo, non credete alle panzane che Israele vi spaccia col suo pinkwashing, e anche se vi costa perché il trash scorre nelle vostre vene, boicottate, per favore, l’Eurovision e il Pride di Tel Aviv, i momenti clou degli sforzi costanti per proporre una visione di Tel Aviv, e con essa di Israele, come rifugio liberale e accogliente, continuando al contempo a imporre un sistema di leggi razziste, un’occupazione militare brutale e politiche di apartheid sul popolo palestinese.
Brand Israel è una campagna creata dal governo israeliano nel 2005 allo scopo di dare al Paese un’immagine «rilevante e moderna» e mirata agli uomini tra i 18 e i 34 anni. In seguito «ha esteso il suo piano di marketing sfruttando la comunità gay per riposizionare la sua immagine globale» come ha spiegato la scrittrice e attivista Sarah Schulman dalle colonne del New York Times nel 2011, con il primo articolo di un giornale mainstream che smascherasse esplicitamente il pinkwashing strutturato di Israele. Solo nel 2010, sono stati investiti 90 milioni di dollari.
Questa l’estrema sintesi – e con qualche libertà lessicale – dell’appello lanciato già da mesi da alQaws, associazione LGBT+ palestinese, nata nel 2007 a Gerusalemme dopo alcuni anni come gruppo informale, e da Aswat, movimento femminista queer che lavora specificamente con le donne queer palestinesi e arabe. Appello diffuso dalla piattaforma Pinkwatching Israel, lanciata da attivisti queer arabi nel 2010, e da Bds – Boycott, Divestment, Sanctions, un movimento per la libertà e la giustizia a guida palestinese. A fine gennaio era già stato sottoscritto da oltre 60 organizzazioni di 20 Paesi, e le adesioni sono tutt’ora in corso.
La 64° edizione dell’ Eurovision Song Contest si svolgerà infatti a Tel Aviv tra il 14 e il 18 maggio prossimi, grazie alla vittoria della canzone Toy di Netta Barzilai all’edizione portoghese dello scorso anno. A seguire, dal 9 al 14 giugno, ci sarà la settimana del Pride di Tel Aviv. Le due manifestazioni, di fatto, garantiranno alla città un mese intero di riflettori rainbow. Come spiega Renato Busarello di Smaschieramenti, una delle poche realtà italiane ad aver già aderito: «Brand Israel è ormai diventato Brand Tel Aviv. Si sono resi conto che non riescono a proiettare l’immagine gay friendly su tutto il Paese, per cui ora provano a vendere la città, che si presta perché è grande, moderna, ha qualche locale e la spiaggia gay. Purtroppo – prosegue – la maggioranza degli israeliani LGBT+ è su posizioni sioniste neocoloniali, con una logica dell’assorbimento, per altro nemmeno realizzato, poiché non esistono pratiche di accoglienza per le persone LGBT+ palestinesi». Questa manifestazione canora, nata nel 1956 per volontà degli stessi Paesi fondatori dell’Unione Europea con l’aggiunta della Svizzera, è spesso stata, lungo la sua storia, tutt’altro che pacifica. L’Italia stessa, che ha vinto 2 volte (con Gigliola Cinquetti nel 1964 e Toto Cutugno nel 1990), è stata accusata di auto-sabotarsi per non dover tirar fuori i denari per ospitare la manifestazione l’anno successivo in caso di vittoria, tant’è che non ha partecipato dal 1998 al 2010.
L’appello a boicottare l’edizione imminente dell’Eurovision è motivato, oltre che dal decostruire la narrazione che il pinkwashing di stato tenta di imporre, anche da una contingenza storica particolarmente drammatica. Il 30 marzo 2018 è stata lanciata a Gaza la Great March of Return, una campagna che richiedeva per i rifugiati palestinesi e i loro discendenti la possibilità di rientrare nelle terre da cui erano stati sfollati. Questa campagna simboleggia la resistenza palestinese contro le aggressioni, la morte e la violenza giornaliere a cui la popolazione è sottoposta. Ebbene, come si legge nell’appello che invita al boicottaggio, dal suo inizio «i cecchini israeliani hanno ucciso più di 200 manifestanti disarmati, ferendone più di 18mila e lasciandone molti con disabilità permanenti». Il 14 maggio 2018, 2 giorni dopo la vittoria di Netta Barzilai, a Gaza sono stati massacrati 62 palestinesi, si legge nell’appello, compresi 6 bambini. La stessa sera, la cantante si è esibita in un concerto promosso dal governo a Tel Aviv, dichiarando: «Abbiamo un motivo per essere felici». Non a caso è stata chiamata «la migliore ambasciatrice di Israele» dal premier Benjamin Netanyahu.
L’appello si conclude sottolineando le similitudini tra la Great March of Return e i moti di Stonewall, tra la condizione di violenza agita da polizia ed esercito e subita dai palestinesi, e quella delle persone LGBT+ nel mondo.
pubblicato sul numero 44 della Falla, aprile 2019
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