Identificazione estetica da Shane ad Adele
di Irene Russo
A ogni coming out con conoscenti e sconosciuti non manca quasi mai un “Ma non sembra affatto!”, talvolta nella raffinata variante: “Ma sei sicura?”, mentre gli occhi dei confusi interlocutori schizzano velocemente dai miei capelli ai miei vestiti. Alle volte, anche quando mi aspetto uno sguardo più avvezzo all’omosessualità, leggo nel volto di chi guarda, eterosessuale e non, il tilt del suo gay radar.
Certo, quando da piccola mi indicavano Shane McCutcheon, protagonista di The L World, come modello perfetto di donna lesbica, facevo fatica a rivedermi in lei, eppure non trovavo grande somiglianza nemmeno tra Shane e gran parte delle mie amiche bisessuali e omosessuali. Purtroppo, pensavo, e non solo io: sembrava che l’unico modo per una donna di essere appetibile per un’altra fosse portare grandi camicie sagomate su un corpo muscoloso e avere un lungo caschetto sfrangettato in direzione ostinata e contraria al vento. E, se proprio non fosse possibile, almeno si tentasse taglio corto e smoking alla Ellen DeGeneres.
Quando nel 2013 uscì nelle sale La vita di Adele registrai sentimenti contrastanti tra le mie conoscenze: c’era chi stravedeva per Adele e il suo look trasandato ma comunque essenzialmente femminile (“Ma infatti non sembra affatto!”) e chi veniva catturato dallo charme bohémienne e androgino di Emma.
La fazione Adele motivava la propria preferenza sulle labbra perennemente corrucciate di lei e sulla grazia che non vedeva nell’altra. Spesso aggiungeva: “Preferisco quelle femminili”, sottinteso le lesbiche, che solitamente non lo sono (e non portano lo chignon perché hanno i capelli corti). Intanto le Shane di qualche anno prima accorciavano il caschetto, allungavano la frangia e si tingevano di blu. Erano gli anni in cui avere i capelli di un colore era quasi metonimia dell’orientamento sessuale. Ma il 2013 segnò anche il debutto di Orphan Black e Orange Is The New Black e l’entrata sulla scena mainstream delle lesbiche radical chic con i dread, delle lesbiche pin-up, delle lesbiche nere punk, delle lesbiche solitamente non riconosciute come tali.
C’è una cosa da dire, però: se con il passare del tempo la gente sempre meno si stupisce davanti a me – e anzi intuisce il mio orientamento ancora prima di dichiararmi – con l’aumentare della visibilità dei personaggi LGBT+ nelle serie, nei film e nello star system sta lentamente svanendo la presenza di lesbiche butch (ma anche di lesbiche alla Shane ed Emma) per fare spazio a donne omosessuali alla moda (siano esse tomboy o lipstick), incredibilmente attraenti e conformi al concetto di femminilità tramandatoci nei secoli dei secoli. Sembra che il prezzo dovuto alla visibilità lesbica sullo schermo sia stato il pieno assorbimento di un canone tossico che prima veniva sagomato solo su donne eterosessuali e che quindi, inevitabilmente, certe individualità vadano cancellate perché non spendibili.
“Non ci sono più le lesbiche di una volta” ha commentato un mio amico un giorno, pur non essendo mai stato donna né lesbica.
Eppure aveva ragione: oggi sentiamo, più di ieri, la necessità di dover essere accettate più che accettarci e di piacere a tante più che piacerci. Forse, senza accantonare l’idea di essere rappresentate nelle varie soggettività, è importante chiedersi se il canone che vediamo nei film e nelle serie sia mai stato donna e lesbica.
pubblicato sul numero 37 della Falla – luglio/agosto/settembre 2018
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