«[…] a volte le storie sono distrutte, e a volte non sono mai neanche pronunciate; in entrambi i casi, nelle nostre storie collettive qualcosa di molto significativo va irrevocabilmente perduto».

Scrivere è un atto politico. A volte la semplicità di certe affermazioni nasconde implicazioni profonde: raccontare è un atto politico; conservare quel racconto in una forma che sfidi il silenzio degli stessi archivi, il cui catalogo è di fatto politico; ricordare è allora un atto politico, lo è la memoria, senza la quale non si esiste. 

Potrebbe essere questo il manifesto d’intenti di Nella casa dei tuoi sogni, memoir postmoderno della scrittrice queer americana Carmen Maria Machado. E di fatto lo è, espresso fin dal prologo. Un’opera che sfida il silenzio di una vita, una condizione, diremmo una soggettività, attraverso quello specchio posto ai lati di una strada che è la letteratura. La storia è quella di una relazione tossica, abusiva, violenta che l’autrice sceglie di raccontare anche per la specificità della sua natura: è stata una relazione lesbica. 

La forma scelta per dare voce a questo racconto, il memoir appunto, che Machado definisce «un atto di resurrezione», pone dei margini ben precisi al testo. Dona almeno un parziale statuto non solo di verità al contenuto, come avviene in diversa misura per tutta la non fiction, ma di intimità rispetto al lettore. È quasi una confessione, seppure estremamente controllata, un tentativo reale di dare voce al silenzio: «Io inserisco nell’archivio il fatto che l’abuso domestico tra partner che condividono un’identità di genere è possibile e non insolito, e che può somigliare a qualcosa di simile a questo. Io parlo dentro il silenzio. Getto la pietra della mia storia dentro un immenso crepaccio. E il rumore esiguo che rimanda mi dà la misura del vuoto»

A questo si lega però l’altra faccia della medaglia di questa operazione letteraria: fatta la scelta che potremmo infelicemente definire «di genere» ci si scontra con la forma adottata dalla scrittrice, il solco in cui si iscrive da un punto di vista teorico, il postmodernismo. Se da un lato questo concetto sfida in parte la natura stessa del memoir proprio sul piano del contatto col reale, dall’altro ci dice molto di quanto una pratica transfemminista possa riflettersi nella scrittura. Da un punto di vista filosofico si potrebbe dire che in questo libro trova contesto quel punto d’incontro tra relativismo e realismo che in Haraway sono i «saperi situati» (cfr., per questa lettura di Haraway, Liberare il domani. Mieli e Haraway: un presente diverso per le meraviglie del possibile, sulla rivista Futuri, n°14, a firma Mattia Macchiavelli). 

Sono frammenti quelli raccontati da Machado, pezzi della sua esperienza che disvelano mano a mano gli aspetti chiave della sua relazione violenta. L’effetto è quello di trovarsi avvolte in un meccanismo di progressivo accerchiamento e rimanere attonite di fronte all’esito tristemente puntuale di piccole azioni, dapprima considerate innocue, poi tollerate, poi scusate. Si è di fronte quasi a una dissezione anatomica della violenza domestica, puntuale e chirurgica, svolta da Machado forse anche per capire cosa sia accaduto, oltre che per raccontarlo. 

I numerosissimi, quanto brevi, capitoli che compongono questa narrazione sono riflessi di quello specchio che è la letteratura. Uno specchio, qui, ormai chiaramente in frantumi, ma che forse proprio in forza di questa parcellizzazione della sua forma si ritrova ancora più adatto a mostrare le infinite specificità dell’esperienza. 

Ondeggiando tra brevi dissertazioni, racconti di episodi specifici e capitoli costruiti come veri e propri libri-game, le pagine di Machado non possono lasciare indifferenti, tanto da far pensare che, per quanto esiguo il suono prodotto, quella pietra che ha lanciato ci stia attraversando e continuerà a farlo nel tempo. Tanto più perché questo libro riesce davvero a dar voce a un non detto, a far emergere dal silenzio storie che intrecciano le vite di molte, situando nell’archivio della nostra coscienza una pietra miliare. 

La scrittura è un atto politico, si diceva, e lo è quindi la letteratura. Occorre dare atto a Machado di non aver fallito nel trovare una sintesi perfetta a questa affermazione. 

Immagine in evidenza da marvinrivista.it, nel testo da iltascabile.com e da lindiependente.it