Gender Bender ospita il lavoro di Dana Michel, coreografa e performer canadese, ritratto di una creatura che vive ai margini della società, immersa in un universo personale fatto di detriti, accumuli di oggetti, ingenuità fanciullesca e sacro mistero. L’1 e il 2 novembre all’AtelierSì
Dana Michel entra in scena di nascosto, strisciando dalla tua sinistra fino a uno spazio scenico già sezionato per diversi momenti performativi. È un corpo animalesco che striscia e scatta, emette fonemi semi-comprensibili, si guarda intorno e cerca di interagire con l’ambiente ma sembra intrappolato, limitato. Il silenzio del pubblico è totale nei lunghissimi minuti in cui cerca di interpretare i suoi gesti, dar loro nomi e forme intellegibili in uno sforzo che sembra immane nella ricerca di una collocazione scenica.
E finalmente ti accorgi che è quello stesso corpo che sta cercando di trovare il suo posto nel mondo, in uno spazio pervaso di scarti, oggetti e cibo che saltano fuori da un sacco nero come fosse un cappello a cilindro scarico della proverbiale magia.
Mentre si sposta da uno spazio performativo all’altro, la performer indaga la sua identità di donna nera trasformandosi e plasmandosi, entrando e uscendo da quelle figure che stanno ai margini della società e rendendone grottesche ma micidiali le ossessioni, le parole e le caratteristiche fisiche.
Dal basso della strada, dove la cura di oggetti insignificanti sembra essere l’unica, assillante, ragione d’esistenza, fino all’alto di un podio presidenziale – oscuro e illusorio simbolo di potere – in cui è un discorso autorevole e incomprensibile a occupare lo spazio scenico.
L’investigazione dell’identità attraverso le radici è un fatto personale che può diventare collettivo a patto di lasciarsi coinvolgere nella reiterazione del gesto del corpo e accettando la stereotipazione dei simboli della comunità.
Restiamo sempre spettatori davanti a un palco, e non è un caso che tra i numerosi accenni di canzoni emerga una versione urlante e straziata di Feeling good, brano portato al successo dall’emblematica Nina Simone ma scritto originariamente per una pièce teatrale il cui titolo, The Roar of the Greasepaint – The Smell of the Crowd, gioca semanticamente con il vissuto esperienziale degli attori in scena.
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