di Carmen Cucci
Era il 1885 quando il Parlamento inglese promulgò il Labouchere Amendment, secondo il quale ogni persona di sesso maschile che, in pubblico o in privato, eseguisse o prendesse parte ad un qualsiasi atto di grave indecenza, fosse colpevole di condotta immorale e condannabile a due anni di carcere e/o lavori forzati.
La leggenda vuole che, in tale circostanza, si domandò alla Regina Vittoria il motivo per cui le pratiche sessuali indecenti delle donne britanniche non fossero state integrate in questa specifica del più vecchio Buggery Act del 1553: parafrasando, la risposta fu “e perché mai, queste donne di cui parla non esistono”.
Che l’imperatrice d’India fosse un personaggio algido e puritano è storicamente noto; ma che, pur essendo temporalmente lontani anni luce dalla concezione occidentale di lesbismo, avesse centrato in pieno la questione, fa alquanto sorridere.
A tal proposito, gli spunti di riflessione si moltiplicano quando scopriamo che non si tratta di un caso isolato. Infatti, nella Russia stalinista avvenne qualcosa di simile: se l’attività sessuale tra maschi venne criminalizzata nel 1934, di quella esistente tra le femmine non c’è menzione alcuna nella legge.
L’invisibilità, dunque, è un problema che ha radici profonde e si somma agli altri due stigma che caratterizzano la vita di una lesbica: l’essere donna e l’essere sessualizzata.
Se la condizione di donna porta già di per sé ad una invisibilità sociale, l’essere lesbica non fa altro che aggiungere peso alla discriminazione subita. Nell’immaginario collettivo, infatti, la lesbica viene considerata o una profonda odiatrice di uomini o, viceversa, un personaggio conforme ad un certo tipo di fantasie sessuali che gli uomini stessi hanno ed alimentano.
Secondo il rapporto presentato dal movimento francese Sos Homophobie nell’ambito della Giornata Mondiale contro la violenza sulla Donna del 2014, la lesbofobia si manifesta prevalentemente tramite pregiudizi negativi del tipo “le lesbiche sono camioniste” o “tra donne non è davvero sesso”, aggressioni verbali (insulti, minacce, canzonature), aggressioni fisiche (percosse, violenze sessuali, assassinio) o violenze psicologiche. Considerato un campione di più di 7000 lesbiche francesi, di cui la maggior parte studentesse con età inferiore ai trent’anni che vivono in città, i sondaggi presentano numeri impietosi: più del 63% delle donne preferisce non avere contatti in pubblico con la propria partner per paura di attirare reazioni ostili, le altre optano per un più pacato “dipende dal contesto”.
Per quanto riguarda il rendersi visibile a parole, oltre che con i gesti, il coming out con la percentuale più alta si riscontra in ambito amicale, mentre parecchio indietro nelle cifre troviamo la famiglia ed il lavoro; unico dato positivo, il dichiararsi con più facilità in ambito medico.
Inquietante il dato che vede circa il 59% delle lesbiche partecipanti dichiarare di aver subito episodi discriminatori nel biennio preso in esame dal rapporto.
La discriminazione della figura della lesbica, però, non è una questione che riguarda solo il contesto esterno al mondo LGBT+: nella stessa comunità, infatti, possiamo riscontrare forme di emarginazione dovute ad una minore visibilità in quanto non si aderisce passivamente al canone noto. Da qui, una donna lesbica che indossa abiti femminili, truccata e che porta i capelli mediamente lunghi trova meno spazio per esprimersi e meno possibilità di essere notata in quanto donna amante delle donne, non rientrando totalmente nello stereotipo, a volte auto-affibbiato.
L’omofobia si manifesta in modi differenti a seconda delle categorie verso le quali si manifesta ed il messaggio prevalentemente rivolto alle lesbiche si può riassumere in “tu non esisti”.
E se “prima furono le cose e poi i nomi”, la percezione di una prevalente non-esistenza di personaggi femminili lesbici in numerosi spazi di visibilità pubblica, come ad esempio la televisione o la letteratura, si riflette banalmente anche nel numero esiguo di nomi ed appellativi utilizzati per designare queste figure: a differenza dei colleghi gay, che possono “vantare” nomignoli anche coloriti declinati in numerose lingue e sfumature, la parola lesbica viene considerata forte e totalizzante di per sé, tanto da non lasciare spazio ad altri epiteti, che non siano poco usati o linguisticamente astrusi, come saffica o tribade.
Riappropriarsi delle parole può essere il primo passo per definire sé stessi e lasciarsi riconoscere dagli altri. Rendersi visibile, in quanto donna lesbica, aiuta ad accettarsi ma, soprattutto, a farsi accettare: se la paura e l’odio nascono da contesti di profonda ignoranza, mostrarsi per ciò che si è, senza compromessi o limitazioni di sorta, può essere un ottimo modo per spingere anche gli altri a fare altrettanto.
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