in collaborazione con Lesbiche Bologna

La notte di sabato 1 Ottobre 2022, io l’ho passata a Budapest alla porta di una festa lesbica. Dentro 300 lesbiche ballavano e fuori un numero imprecisato di uomini cis ungheresi cercava di entrare. In mezzo c’ero io. Sono una delle organizzatrici della conferenza lesbica dell’Europa e dell’Asia centrale e quella era la nostra festa di chiusura. Sono una butch di un metro e sessanta scarsi per cinquanta chili: di solito vengo presa per un ragazzino pre-adolescente, non per una buttafuori minacciosa. Eppure, quegli uomini grossi il doppio di me, li ho fermati tutti. Alle compagne che non potevano credere ai loro occhi e da allora mi chiamano «tiny bouncer» (mini-buttafuori), dicevo che essere stata un’attivista lesbica di provincia ha fatto sicuramente sviluppare delle competenze. 

Io probabilmente una lesbica di provincia lo rimarrò sempre: sono cresciuta nella provincia sarda e maturata come attivista nella provincia del nord Italia. E dunque in spazi al margine di un concetto geografico e politico di Europa Occidentale che io vedo elaborato, in particolare per quanto riguarda le identità LGBTI, sempre a partire dalle esperienze di classe media delle capitali dei grandi paesi occidentali.

Dirmi «lesbica di provincia» serve a dire il forte senso di straniamento e per certi aspetti di inadeguatezza che ho provato e provo quasi costantemente da quando nel 2017 mi è stato chiesto di partecipare all’organizzazione della prima conferenza europea lesbica a Vienna. Molto è cambiato da quella prima conferenza. Abbiamo cominciato come un gruppo di attiviste che lo faceva perché era necessario. EL*C – la comunità europea dell’europa e dell’asia centrale – è ora un network con più di 70 organizzazioni, con centinaia di socie individuali, e, da quest’anno, con sei impiegate a tempo pieno. La conferenza è rimasta uno dei momenti più importanti, in cui attiviste lesbiche possono tessere quella rete di relazioni che serve a tenere il movimento lesbico vivo e a definire le strategie per le lotte che abbiamo in comune.

Come facciamo però a dire quali sono le lotte che abbiamo in comune? Come facciamo a costruire questa rete di relazioni quando cerchiamo di mettere insieme lesbiche dal Portogallo al Kazakistan?

Una risposta concreta viene dai luoghi in cui decidiamo di tenere queste conferenze. Quest’anno eravamo a Budapest, in Ungheria, il paese-laboratorio di tutte le politiche fasciste, dalla disumanizzazione delle persone LGBT alle narrazioni sulla “purezza della razza” passando per il controllo sul corpo delle donne. Il fatto di essere a Budapest, con le attiviste ungheresi che tengono in piedi da trent’anni una delle più longeve organizzazioni lesbiche in Europa, nella stessa settimana in cui l’Italia ha eletto un governo fascista, la comunanza di lotte me l’ha fatta sentire chiarissima.

Un’altra risposta viene dalle pratiche di solidarietà che in questi spazi comuni hanno l’opportunità di nascere e svilupparsi. Nel 2019 la conferenza era stata in Ucraina, che era già un paese in guerra (anche se in occidente non ce n’eravamo accorte) e dove ci hanno attaccato con le pietre e i gas lacrimogeni. Oggi che l’invasione russa ha portato la guerra alle porte, Olena Shevchenko, la compagna con cui avevamo organizzato la conferenza, gestisce rifugi per donne LBT a Kyiv e Leopoli. E la comunità lesbica europea è al suo fianco, con le case rifugio al confine tra Polonia e Ungheria, con i carichi di aiuti umanitari, con il fundraising dedicato e con una rete di accoglienza di più di 500 individue che hanno messo le loro case a disposizione.

Tutto questo è vero. A me però il senso di inadeguatezza e straniamento rimane e mi interroga sul mio ruolo in queste discussioni di resistenza, lotta e solidarietà. La mia adolescenza a Nuoro, nel centro Sardegna, ha qualcosa di rilevante da portare a discussioni che hanno le grandi città occidentali e le loro contraddizioni come centro nevralgico? O sulle tensioni che partono dal rapporto tra Europa occidentale e Europa orientale e Asia Centrale e da una storia di cui mi sembra (a torto) di non aver fatto parte? Quanto della mia esperienza di attivista che lottava per tenere aperta un’associazione lesbica a Trento ed era felice se aveva qualche decina di partecipanti, è interessante o anche solo dicibile a persone che contano i successi delle loro iniziative lesbiche nell’ordine delle migliaia?

Questa mia marginalità, e dunque le molte marginalità che non riusciamo a rappresentare del tutto, cos’ha da dire? E come facciamo a creare uno spazio in cui ascoltarle?

La risposta passa da molti elementi: le persone a cui chiediamo di intervenire, le lingue che utilizziamo, i temi di cui ci occupiamo, il modo in cui costruiamo i nostri spazi come spazi di confronto politico e/o spazi sicuri per la comunità. Passa anche dal supporto materiale che una realtà come EL*C sta cominciando a fornire per la costruzione e l’impoteramento del movimento lesbico in tutta la sua diversità e al di là dei centri politici e culturali. Per farlo e bene abbiamo bisogno di confrontarci con queste domande, con tutte le molteplici esperienze di marginalità della nostra comunità e con il senso di straniamento e inadeguatezza che proviamo. 

Io personalmente penso che la risposta passi anche da alcune delle sensazioni forti che ho provato durante la conferenza: la gioia di aver portato un gran numero di attiviste italiane a Budapest e aver lanciato insieme un grido di resistenza ai fascismi che avanzano. La forza di aver costruito uno spazio (perfettibile, ma concreto) di celebrazione delle nostre vite, dei nostri corpi e delle nostre dissidenze nonostante il contesto ostile. L’orgoglio di aver preso parte alla Dyke March di Budapest, con la consapevolezza di star facendo un atto di resistenza dove è veramente indispensabile. Ciascuna di queste esperienze, mi ha ricordato i moltissimi momenti di gioia lesbica della mia militanza, tutti gli spazi lesbici che ho costruito e difeso con le mie compagne e tutti i momenti di orgoglio e resistenza nei pride complicati e nelle marce di provincia.

Mi sembra insomma che, per il momento, la risposta migliore alle mie domande stia ancora nel grido che lanciavamo durante la marcia. «Lesbians, resist!» «Lesbiche, resistiamo!».