Il mondo del lavoro in relazione alle questioni di genere, orientamento sessuale e identità trans.
La condizione delle donne nel mondo del lavoro è argomento noto: da decenni, ormai, si parla di soffitto di cristallo, il Gender Pay Gap è sempre più studiato, indirizzato, colpito da politiche, anche nazionali, di alcuni stati europei e numerosi sono gli studi che affrontano il tema del lavoro di cura e del suo peso sull’economia o su come dovrebbe essere remunerato. Non si può dire altrettanto rispetto alle questioni LGBT+ in rapporto al mondo del lavoro, in Italia: un campo ancora tutto da investigare. Certo, non viviamo nelle caverne e alcuni dati ci sono già, ciò non toglie che ulteriori indagini andrebbero condotte e che la questione meriterebbe più attenzione.
Ma andiamo con ordine.
Se osserviamo la questione lavoro e identità di genere, quindi diciamo che vogliamo concentrarci inizialmente sulla situazione delle donne, dobbiamo anzitutto spendere due minuti per riflettere sulla loro condizione in generale:
“Le donne più giovani (24-36 anni), concentrate nel centro-Nord, sono quelle che emergono: si laureano prima e meglio dei coetanei maschi. Altre, invece, migliorano la loro condizione. Alcune quarantenni e cinquantenni con titoli di studio elevati hanno visto in questo decennio cominciare ad infrangersi il tetto di cristallo e hanno avuto accesso a ruoli apicali, grazie anche a una normativa che le ha sostenute. Le donne anziane, poi, hanno migliorato la qualità della loro vita: le ultrasessantenni non solo continuano ad avere una vita media più lunga dei coetanei maschi ma sono anche più capaci di inventarsi un nuovo progetto di vita in tarda età.”
È uno dei dati positivi che emerge dalla ricerca “come cambia la vita delle donne 2004-2014” realizzata dall’ISTAT, il cui articolo riassuntivo è disponibile a firma di Chiara Meta.
Ma nel momento in cui ci addentriamo nella differenza di trattamento tra uomini e donne, vediamo delle evidenti disparità per quello che riguarda, ad esempio, il salario mensile: sono numerosi gli esempi di come uomini e donne che hanno la stessa posizione, nella stessa azienda, abbiano una remunerazione differente. Questo fenomeno è ciò che viene usualmente chiamato Gender Pay Gap.
Allo stesso tempo possiamo trovare casi di come le donne facciano fatica, ancora oggi, a scalare la gerarchia aziendale e a ricoprire ruoli apicali. Su questo problema sono molti gli studi svolti all’estero, nel mondo, in Europa, in Italia, e molte sono anche le misure che diversi stati hanno cercato di portare avanti. Va menzionata, per esempio, la legge 120/2011, che prevedeva le “quote rosa” nei CDA¹ delle aziende quotate in Italia. Potremmo discutere ore sull’utilizzo di “quote rosa”, e sulla lungimiranza di quest’operazione, certo è che si tratta di uno strumento efficace per smuovere la situazione e per fare in modo che le donne siano più riconosciute nel mondo del lavoro, anche se non è e non può essere l’unico ad essere usato.
Sul tema della “cura come lavoro” e di come le donne svolgano un lavoro anche quando non sono al lavoro, bisognerebbe aprire tutta una serie di parentesi, nonché fare approfondimenti, visto che questo è un tema cardine sia della condizione delle donne in sé, che del mondo del lavoro. Il contesto di riferimento italiano, lo sappiamo bene, vede la donna come “portatrice di cura per natura”. Quindi, la donna è colei che non solo si occupa della famiglia, non solo si occupa della casa, ma si occupa anche dei figli e di tutto ciò che ruota attorno alla maternità.
“Il lavoro infatti rimane la questione fondamentalmente irrisolta della vera emancipazione femminile. La maternità continua a essere considerata il discrimine nell’accesso e nella permanenza nel mercato del lavoro. Le donne in età feconda (34-45 anni), infatti, sono le più penalizzate nel decennio appena trascorso.”
La maternità è una scelta, un percorso, un’esperienza di vita che molte donne si trovano ad affrontare, e che le mette di fronte a ulteriori limiti e difficoltà. Rischia di essere il motivo per cui viene rivista o interrotta la crescita professionale, oltre che di diventare un’esperienza faticosa e complessa, perché non sufficientemente supportata dall’azienda: orari più flessibili, agevolazioni e strumenti innovativi di welfare possono fare la differenza per una donna che rientra dal congedo per maternità, strumenti ancora troppo poco applicati. Se alla questione della maternità aggiungiamo l’identità lesbica o transgender, ecco che il discorso si complica ulteriormente, e diventa necessario affrontarlo considerando contemporaneamente più punti di vista.
Altro livello di complessità ci viene dato dalla situazione in sé del mondo del lavoro di oggi, ovvero dalle numerose modalità di lavoro. Se gli studi che sono stati svolti fino ad oggi indagavano l’ambiente delle aziende e delle realtà che contemplano contratti a tempo determinato, indeterminato o in una struttura ben costituita, che prevede spesso la figura del/la responsabile delle risorse umane, oggi, con tutte le partite IVA e le persone che lavorano freelance e con le altre modalità contrattuali emerse negli ultimi anni, è ovvio che le identità minoritarie o a rischio di discriminazione si affacciano in un mondo che non è pronto tutelarle in nessun modo.
Come spunto ulteriore di approfondimento e confronto di tutto ciò che è emerso finora, e anche di più, non si può non menzionare l’elaborazione politica portata avanti da Non Una Di Meno e da tutto quello che sono la mobilitazione e lo sciopero dell’8 marzo dall’anno scorso.
La riflessione sulle identità LGBTQI e il mondo del lavoro vede una situazione, se possibile, ancor più complessa. Da un lato abbiamo l’orientamento sessuale come possibile motivo di discriminazione sul posto di lavoro, elemento forse scontato ma ancora oggi rilevante, poiché gli stereotipi sono forti e ancora oggi la non troppo diffusa visibilità delle identità LGBT+ si scontra con gli ancora troppi stereotipi normativi.
Arcigay nel 2011 ha prodotto quella che è ancora l’unica ricerca italiana di una certa ampiezza su questo tema, Io sono io lavoro. Lotta all’omofobia e promozione della non discriminazione sui luoghi di lavoro come strumento di inclusione sociale, che ci mostra come il 13% delle persone LGBT+ intervistate ha visto respingere la propria candidatura ad un posto di lavoro in ragione del proprio orientamento sessuale, valore che sale al 45% per le persone transessuali. Appare chiaro, dunque, il motivo per cui più di un quarto delle persone LGBT+ decide di non rivelare il proprio orientamento sessuale sul posto di lavoro, o perché la scelta professionale, nella maggior parte dei casi, avviene tramite la vocational choice, cioè il lavoro viene scelto in base al proprio orientamento sessuale.
Sempre nella stessa ricerca, il 4,8% riferisce di essere stato/a ingiustamente licenziato/a a causa del proprio orientamento sessuale o identità di genere; mentre il 19,1% denuncia di aver subito un trattamento ingiusto sul luogo di lavoro.
A livello normativo ci troviamo con il D.lgs 9 luglio 2003, n. 216 che prevede “[…] la paritá di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’etá e dall’orientamento sessuale, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro”, tenendo conto anche “ […] del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su donne e uomini”
Il Decreto identifica 3 diverse tipologie di discriminazione:
- diretta: si ha quando, sulla base di una caratteristica (in questo caso l’orientamento sessuale) una persona viene trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra persona in una situazione analoga;
- indiretta: si ha quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente “neutri”, in ambito lavorativo, possono mettere una persona Lgbt+ in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone;
- molestie: comportamenti indesiderati ostili, intimidatori, degradanti, umilianti o offensivi che hanno lo scopo e l’effetto di violare la dignità di una persona².
Sembrerebbe un panorama accogliente, attenta alle identità LGBT+, ma spesso il limite è proprio la visibilità e la disponibilità delle stesse vittime a denunciare gli atti discriminatori.
Sul tema dell’accettazione delle persone LGBT+ sul posto di lavoro sicuramente alcuni passi avanti ha permesso di farli la legge 76/2016, l’arcinota legge Cirinnà, che istituisce le unioni civili nel nostro Paese. Anche se la legge ha dei limiti, dovuti alla mancata uguaglianza tra coppie omosessuali e eterosessuali, per quanto riguarda il trattamento delle persone LGBT+ sul posto di lavoro ha introdotto l’equiparazione al matrimonio, rifacendosi al codice civile e agli articoli relativi al matrimonio. Questo significa che è prevista la licenza matrimoniale, è possibile richiedere di assistere il/la partner in caso di malattia, etc. Allo stesso tempo però la famiglia del/la coniuge non è annoverata tra la parentela diretta e quindi non può essere motivo di licenza. Inoltre questa legge non riconosce, e quindi non tutela affatto il genitore sociale, anche per quanto riguarda eventuali permessi e agevolazioni per paternità o maternità.Ci troviamo di nuovo di fronte al tema del cambiamento culturale e non si può negare che alcuni passi avanti, per quanto talvolta critici, siano stati portati avanti da politiche di diversity management all’interno di grandi aziende. Tra degli attori principali c’è Parks – Liberi e Uguali, associazione che si occupa della promozione, della sensibilizzazione e dell’inclusione delle persone LGBT+ nel mondo del lavoro. Nel 2018 sono più di 45 le aziende che hanno aderito, tra queste anche dei colossi internazionali, che si stanno spendendo per adeguare le policy aziendali e le pratiche quotidiane a misura delle persone Lgbt+. Sono state attivate, negli ultimi anni, delle sinergie molto interessanti: un esempio virtuoso è TIM che, oltre ad aver creato un diversity board per stimolare tutta l’azienda a confrontarsi con questi temi, ha attivato dei progetti di inclusione per persone Lgbt+ in situazione di fragilità.
Le identità trans* sono sicuramente il sommerso di tutto questo discorso.
Non ci sono norme che tutelano esplicitamente la condizione di transizione o di transgenderismo sul posto di lavoro, che le persone trans si trovano a vivere con più evidenza. Per non menzionare la difficoltà di trovarlo, il lavoro, quando ancora si è in corso di transizione, quando i documenti non sono ancora aggiornati.
Sembra inutile ripeterlo, ma è bene farlo: le norme di genere sono lo stereotipo più forte nella società in cui viviamo. Ancora oggi, in Italia, nel 2018, chiunque esca dai binari precostituiti è un* outsider, è una persona di cui non ci si può fidare, per non dire peggio.
Se guardiamo l’esperienza trans, o di tutte le soggettività transfemministe queer, nel mondo del lavoro, si delinea una situazione molto più complicata, di affermazione, di integrazione che faticano a emergere. Anche in questo caso però, è opportuno menzionare alcune ottime esperienze, sia nazionali che locali, come il lavoro del Mit a Bologna, che supporta la comunità trans e che, in sinergia con alcune realtà sociali del territorio, ha attivato nel corso degli anni percorsi di stage, tirocini e borse lavoro.
Se l’Italia è un paese complicato e i temi dell’accesso al mondo del lavoro e della tutela dei diritti di lavorat*/tori/trici che non si uniformano alle norme è argomento ulteriormente complicato, potrebbe esserci di stimolo quel che accade in altri paesi.
Ad esempio Unison è un sindacato britannico in cui si sono create delle vere e proprie squadre si persone LGBT+ volte a sensibilizzare l’ambente di lavoro, supportare compagne/i in difficoltà, e fare advocacy perché le leggi siano approvate e applicate.
Credo che questo tipo di approccio in Italia non possa essere adottato tout-court, considerata l’attuale situazione sindacale, ma ritengo particolarmente interessante il lavoro di squadra, lo smettere di affrontare i mulini a vento da sole/i/* e il fare invece gruppo, facendosi forza reciprocamente, e spostando avanti il limite entro il quale muoversi al fine di non avere più limiti.
¹ Il 12 agosto 2011, con l’entrata in vigore della legge 120/2011 – approvata grazie all’impegno delle On.li Lella Golfo e Alessia Mosca – è stata stabilita una importante novità nell’ambito del diritto societario italiano: gli organi sociali delle società quotate in scadenza dal 12 agosto 2012 dovranno essere rinnovati riservando una quota pari ad almeno un quinto dei propri membri al genere meno rappresentato: le donne.
Donne che, a partire dal secondo e terzo rinnovo degli organi sociali, dovranno essere pari ad almeno a un terzo, per arrivare al 2022, data in cui si pone la seconda importante scadenza fissata dalla legge Golfo-Mosca: l’esaurimento della sua efficacia.
Fonte: https://www.diritto24.ilsole24ore.com/avvocatoAffari/mercatiImpresa/2012/03/la-legge-1202011-golfo-mosca-sulle-quote-rosa-effetti-e-conseguenze.php?refresh_ce=1
² Si veda anche la ricerca Racconta Lavoro del Centro Risorse LGBTI, 2016
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