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Da secoli, individui di altre specie sono oppressə e imprigionatə. L’abitudine di collezionare animali esotici e rari ha origine con i serragli: nel XV secolo a.C. gli imperatori cinesi e aztechi, ad esempio, esponevano le loro collezioni zoologiche a testimonianza della propria fama e del proprio benessere, mentre gli antichi romani collezionavano animali rapiti da terre conquistate, sfruttandoli per spettacoli e combattimenti. Con “serragli” però, detti anche ménagerie, si intendono sia le strutture costituite da gabbie o recinti che si potevano trovare nei giardini pubblici e privati, sia il terreno dove tali gabbie erano posizionate. Per questo motivo li consideriamo antesignani dei moderni giardini zoologici. Molto famoso è il Serraglio Reale collocato al secondo piano della Torre di Londra (XIII-XIX secolo), attrazione e passatempo per le famiglie della nobiltà. Nato come sede di un museo naturale, la sua collezione venne poi ampliata arrivando a includere animali considerati esotici. Le gabbie erano impilate una sopra l’altra e lo spazio era ristretto: leoni, tigri, coccodrilli, elefanti erano costrettə in piccole gabbie. Gli unici stimoli erano quelli che arrivavano dall’utenza e la scarsa igiene era una delle cause principali di malattie e morte.

Jason Hribal afferma che, attraverso la lettura dei diari dei collezionisti di animali del XIX-XX secolo quali Frank Buck, Alfred Wallace ed Henry Ward, possiamo capire in che modo i giardini zoologici e i musei di storia naturale abbiano contribuito enormemente all’estinzione e alla riduzione di molte specie. Come?
Il collezionista Frank Buck nelle sue battute di caccia uccideva oranghə adultə, molto più difficili da sottomettere, i cui corpi erano poi venduti ai musei di tassidermia, mentre ne rapiva la prole per venderla a zoo, serragli, musei naturali e collezioni private. Come ben sappiamo zoo, bioparchi, acquari, circhi, pali, fiere sono strutture tutt’oggi esistenti.
Quello che forse non è risaputo è che ognuno di questi luoghi è il centro di una resistenza che gli animali, lì rinchiusi, portano avanti ogni giorno in vari modi, contro lo sfruttamento e la violenza. Si rifiutano di mangiare, di muoversi, di compiere le azioni richieste, di riprodursi forzatamente – per questo si ricorre alla violenza dell’inseminazione forzata – e mettono in atto fughe e aggressioni volte alla conquista della libertà. 

Ne parlano approfonditamente Sarat Colling in Animali in rivolta e lo stesso Hribal in Paura del regno animale. Questi scritti testimoniano di quella che Hribal definisce resistenza animale, ovvero la fondamentale differenza tra reazione e azione. Non si tratta di una semplice risposta passiva, ma di una reazione che implica una volontà di ribellione precisa e pianificata

La risposta degli zoo a commento di questi episodi è sempre la stessa: le fughe e le aggressioni, rivolte principalmente all’operatorə/addestratorə, non sono mai deliberate né intenzionali, sono fatti assolutamente casuali. Pertanto, gli atti di resistenza individuali e collettivi sono narrati come buffe storielle al fine di ridurne la portata, se non di passarli sotto silenzio, riconducendoli all’istinto e negandone così l’intenzionalità, e questo principalmente per due motivi.

Il primo mira a giustificare l’idea che questi luoghi vogliono trasmettere, cioè di essere spazi dove il benessere dellə individui rinchiusə è al primo posto e le loro funzioni etologiche sono rispettate. Perché dovrebbero fuggire, dunque? 

Eppure, secondo una ricerca condotta dall’England’s Royal Society for the Prevention of Cruelty to Animals in London in collaborazione con la Georgia Meson, Università del Canada, i cui risultati sono stati pubblicati su Science, i pachidermi costretti in cattività negli zoo europei hanno un’aspettativa di vita di molto inferiore rispetto allǝ loro conspecificǝ che vivono nelle riserve naturali: ə elefantə africanə negli zoo vivono mediamente 17 anni, mentre nelle riserve naturali arrivano a una media di 56 anni; i pachidermi asiatici in cattività vivono generalmente 19 anni, mentre la media in riserva è di 42 anni. 

Il secondo motivo è legato al mancato riconoscimento della loro agentività, cosa che, se avvenisse, presupporrebbe l’ammissione di una programmazione, di una intenzionalità e di una volontà ad attuare i progetti di fuga per la libertà da parte degli animali rinchiusi. Riconoscerne l’agentività quindi implicherebbe vederli come soggetti e non più come meri oggetti. 

Se queste rivolte fossero davvero così rare, perché ogni anno, scrive Hribal, si investono ingenti somme di denaro al solo fine di incentivare i sistemi che limitano e impediscono la fuga dagli zoo? Queste misure, sempre più coercitive e limitanti, servono sia per  scongiurare le fughe o le rivolte, sia per esercitare un controllo.

Le ritroviamo anche negli allevamenti, dove le gabbie sono strutturate in modo tale da impedire i minimi movimenti e si aumentano costantemente sorveglianza e misure di contenimento, come ad esempio accade nel momento dello stordimento prima della macellazione attraverso i cosiddetti corridoi della morte, in cui gli animali sono costretti a entrare e impossibilitati a muoversi, prima di essere storditi e uccisi. 

Apprendono a loro spese che le azioni di fuga da zoo, circhi, allevamenti e macelli, saranno punite e che spesso saranno punite con la violenza: fino agli anni Settanta del XX secolo rischiavano la morte tramite folgorazione o impiccagione se ritenuti pericolosi. Nonostante ciò continuano a ribellarsi.

Per smantellare il concetto che non li vede come soggetti attivi nella loro liberazione dobbiamo iniziare a indagare e a decostruire il nostro privilegio di specie. Chi beneficia di tale privilegio relega alcune soggettività allo status di non-umano/sub-umano, giustificando così l’oppressione e il loro sfruttamento. Lo psicologo britannico Richard Ryder, in prima fila nella battaglia contro la pratica della sperimentazione sugli animali di altre specie, nel 1970 coniò un termine specifico per riferirsi a tale concetto: specismo, definendolo la «convinzione diffusa che il genere umano sia intrinsecamente superiore ad altre specie e quindi abbia diritti o privilegi che sono negati ad altri animali senzienti». 

Lo specismo nasce dal privilegio di specie, un pensiero razziale fondato sul concetto di umanizzazione. Lo affermano le sorelle Aph e Syl Ko, nel loro libro Afro-ismo – Cultura pop, femminismo e veganismo nero, rimandando con questo concetto non tanto alla semplice appartenenza alla categoria di homo sapiens, bensì alla somiglianza con gli “umani”, ovvero i bianchi. 

Le sorelle Ko, attraverso un percorso di decostruzione e risignificazione dei concetti di animale, animalità e corpo, ci parlano di corpi «incarnati», soggettività prese in considerazione principalmente in relazione ai propri corpi e sulla base di questi discriminate e oppresse: ogni tipo di sfruttamento e oppressione è legittimato e reso possibile da una concezione che lega e àncora alcuni esseri viventi al proprio corpo e li identifica con esso a tal punto da risultare il loro unico tratto distintivo.Questo pensiero ha reso possibile la loro oggettivazione e il loro sfruttamento: il corpo, privato di ogni agentività, visto come mero oggetto può essere violato, sfruttato, mercificato, smembrato, consumato. Schiavitù, sfruttamento sessuale e riproduttivo, sperimentazione e vivisezione sono solo alcune delle violenze che ne derivano e che vanno oltre la specie. Non saremo mai liberə fintanto che la lotta per l’autodeterminazione dei corpi non includerà anche quelli di animali di altre specie, non solo come punto di un discorso più ampio, ma riconoscendo nella loro oppressione una fonte comune alla base di tutte le discriminazioni, per arrivare a una rilettura della storia che esca dalla narrazione antropocentrica che l’ha sempre dominata, soprattutto nelle culture occidentali. L’autodeterminazione dei corpi è l’anello fondante nel pensiero femminista che vede nella loro liberazione il fine ultimo della lotta. Pertanto la lotta deve includere i corpi degli animali di altre specie, perché nessunǝ di questi animali ha dato il proprio consenso affinché il proprio corpo venga violato, sfruttato, mercificato, smembrato e consumato.