ALLE RADICI DELLA FRAGILITÀ BIANCA
«Il razzismo non è un evento, è un sistema». Le parole di J. Kēhaulani Kauanui, docente di American Studies e Anthropology alla Wesleyan University, ci servono a demolire un binarismo necessario alla cultura dominante: cattiva persona = razzista, brava persona = antirazzista. È parte fondante della cultura occidentale la convinzione che il razzismo consista in atti individuali compiuti da cattive persone e non che si tratti, piuttosto, di un complesso meccanismo di norme e azioni che hanno determinato nel tempo un consistente svantaggio per le persone di colore e un vantaggio per quelle bianche. Ciò non significa che le persone bianche non possano essere soggette a discriminazioni, ma che queste non riguardano il colore della pelle. E non significa nemmeno che le persone di colore non possano raggiungere posizioni di potere, ma che ciò non ha automaticamente la capacità di garantire condizioni di vita degne per tutto il resto della comunità.
Afferma Scott Woods, scrittore e poeta: «Il problema è che i bianchi vedono il razzismo come un odio consapevole, quando il razzismo è molto più di questo […] l’odio è solo una delle sue manifestazioni. Il privilegio è un’altra. L’accesso è un’altra. L’ignoranza è un’altra. L’apatia è un’altra. E così via».
Considerarsi antirazziste non esenta le persone bianche dal perpetuare razzismo: sperimentare questo disagio è il primo passo per la decostruzione. Concetti che sono familiari a chiunque abbia mai approcciato i temi del libro White fragility di Robin DiAngelo. Un saggio dell’autocritica bianca statunitense che si propone di rendere palesi tutti i meccanismi di difesa tipici delle persone che si considerano alleate nella lotta antirazzista. La «fragilità bianca» è la concettualizzazione delle prevedibili reazioni di rabbia e negazione che si attivano in situazioni di stress razziale.
Dagli ambienti bianchi più bigotti, fino alle comunità più consapevoli e politicizzate, la questione della razza non può mai essere il centro del discorso, rispettivamente in senso escludente, o per effetto di una negazione, la cosiddetta «colour-blindness». Alcune delle frasi che potrebbe capitarci di pronunciare o sentire: «siamo tutti uguali», «io non vedo colori», «gialli, rossi, neri, a pois, non c’è differenza», «dobbiamo rimanere uniti nonostante il colore della pelle». Queste espressioni sono il sintomo di un grave problema: l’incapacità di sostenere politicamente l’autenticità dell’esperienza di una persona non bianca.
Rivelare il razzismo di tali espressioni porta sempre a un altro punto del copione sgualcito: «Razzista io? Ho un’amica nera, ho adottato un bambino indiano, a scuola di mia figlia ci sono tante etnie, ho pubblicato un quadrato nero per il #blacktuesday, sono solidale con le lotte dei braccianti».
Di nuovo: invocare una prossimità con i soggetti discriminati è un meccanismo sicuramente noto anche alle comunità LGBT+. È l’impossibilità di sostenere il peso della responsabilità collettiva, ricorrendo all’esperienza individuale che si ostina a ignorare il concetto di razzismo sistemico. Portare alla luce queste dinamiche non ha lo scopo di instillare colpa: la colpa è passiva, ci impedisce di prendere provvedimenti. Si punta piuttosto a superare il trauma: l’agghiacciante prospettiva che le buone intenzioni possano riprodurre una cultura razzista.
Il saggio White Fragility non è una novità, è del 2018, ma è tornato prepotentemente nel dibattito delle ultime settimane. Alcune critiche si soffermano sull’eccessiva semplificazione dei concetti, in sostanza «non tutte le persone bianche sono incapaci di realizzare il proprio razzismo interiorizzato». Al netto delle contraddizioni, il dibattito in Italia è così poco sviluppato che potrebbe esserci bisogno di uno shock per rompere il silenzio. Non esiste ancora un punto di partenza teorico altrettanto potente per decostruire il razzismo inconsapevole e costruire spazi collettivi di confronto. È un lavoro che spetta esattamente alle persone bianche, ma è relegato a qualche commento sui social o preteso, direttamente o meno, dalle persone di colore come se fosse un dovere pedagogico. Agire sul piano delle lotte sociali è necessario e urgente tanto quanto fare autocritica sui messaggi che passano a livello culturale e sedimentano nel campo di battaglia dove le destre stanno guadagnando terreno.
La generalizzazione è scomoda, e imparare a gestire questa scomodità include essere capaci di accogliere feedback negativi, di ascoltare e non sovradeterminare una lotta, di riparare, individualmente e collettivamente.
Improvvisare alleanze senza praticare autocritica può fare danni: le narrazioni che si condividono, le informazioni che si diffondono, se per qualcuno sono la moda di un momento, persino una possibilità di profitto o marketing, per altre persone sono lotta quotidiana, in certi casi storie di violenza e morte.
Disertare la supremazia bianca significa imparare a riconoscere bias, evitare appropriazione culturale, sindromi da salvatore bianco, ma anche sabotare la pratica attiva (e abbastanza cosciente) di acquisire credito politico e sociale da iniziative di cui non si subiscono in prima persona le conseguenze.
Va vissuto, capito e superato il disagio che provoca non essere padroni della situazione, non essere il centro del discorso, stare fuori dalla propria zona di comfort, non avere strumenti di analisi adeguati. In parole povere, il disagio di dover mollare la presa, di lasciare che i soggetti del discorso si raccontino da soli: c’è tanto lavoro da fare, e non inizia dal prendere parola al posto di qualcuno, anche se con le migliori intenzioni.
Parlando di autoformazione e di costruzione di alleanze valide nella lotta antirazzista, in queste settimane è stato riversato tanto materiale sul web. Le occasioni formative sono numerose, molte partono da iniziative di attivismo statunitensi. Capita di sentire forte l’urgenza di tradurre materiali, utile per connetterci e comprendere la visione culturale e politica delle lotte di Black Lives Matter, troppo spesso ridotta dai media generalisti italiani a saccheggi e rabbia cieca o vissuta quasi come una moda. Un lavoro carsico di anni conquista l’attenzione pubblica e mediatica, e trascina nello spazio e nel dibattito collettivo idee e pratiche che sembravano relegate all’utopia: l’abolizione del carcere e della polizia, la costruzione di comunità solidali inclusive, intersezionali e autodeterminate.
Tuttavia capita anche di domandarsi quanto e in che modo la traduzione sia utile se non iniziamo a riferirci al contesto specifico, a produrre materiali situati e un impegno che sia di lungo termine per creare spazi di visione e confronto anche da queste parti. La risposta è complessa e va ricercata molto oltre il desiderio compulsivo di ricompense immediate per il nostro buon antirazzismo.
Pubblicato sul numero 57 della Falla, luglio/agosto/settembre 2020
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