Non è satira ciò che piace, ma è satira ciò che è satira. E, questa volta, quella di Vauro Senesi satira non è, checché lui ne dica. La pandemia di coronavirus ci ha mess* di fronte a un qualcosa di inedito, di mai visto, tranne che per un aspetto: l’eterna caccia all’untore, in un primo momento identificato sotto la categoria etnica “cinese” e poi esteso alla generica categoria di “asiatico”. E untrici e appestate sono state considerate, per lungo tempo e forse ancora oggi, le persone omosessuali per quella stessa AIDS di cui oggi Vauro ha disegnato sul Fatto. 

Per questo la pezza di Vauro è peggio del buco quando afferma che «quando si affronta un nemico invisibile come un virus se ne cerchi di visibili, con tanto di faccia, nome e cognome». Le persone malate di AIDS sono state allo stesso tempo visibili – sbattute come mostri in prima pagina – e invisibili, lasciate morire perché ammalate della “peste dei gay”. 

Visibilmente invisibili o invisibilmente visibili: un ossimoro tremendo che a distanza di anni continua a fare male alla memoria di una comunità che ha vissuto tutto lo stigma della malattia. «Ridateci l’AIDS» anche no. Però la vera satira sì, quella ridatecela anche adesso. Ne abbiamo bisogno.