COME IL PIANTO È DIVENUTO SIMBOLO DI DEBOLEZZA

Versione audio su Spreaker

«Si bagnava la sabbia, si bagnavano le armi degli uomini / di lacrime, tal maestro di guerra piangevano. / E in mezzo a loro il Pelide iniziò alto il lamento [...]».

 

L’immagine di un uomo che piange è tale da suscitare emozioni contrastanti: inquietudine, imbarazzo, qualche volta indignazione. A differenza del pianto femminile, anch’esso redarguito ma meno inaspettato, quello maschile risulta essere qualcosa di inadeguato e perturbante, in un certo senso qualcosa di sbagliato. Basta una rapida ricerca online sul tema per rendersi conto della diatriba sulla natura di queste lacrime, con presunti moderni studi che stabilirebbero che no, l’uomo che singulta non è uno smidollato, è semplicemente più sensibile. Quasi a conferma del fatto che si vive in una società in cui l’espressione emotiva meno equivocabile sia da un lato un cedere, troppo, alle emozioni e dall’altro qualcosa che non si confà a ciò che dovrebbe essere un uomo, calco di quel vir romano tutto d’un pezzo da cui abbiamo ereditato l’idea di virilità.

Ma è sempre stato così? I versi citati in apertura aprono lo spiraglio su una realtà diversa: il poeta in questione è Omero, il testo l’Iliade, il pianto quello di un esercito di eroi, e di Achille sopra gli altri. Potrebbe sembrare strano che quei personaggi, mitologici e letterari, da cui la cultura occidentale ha tratto, alle sue origini, modelli di comportamento universali, non siano colti da imbarazzo alcuno nel dare sfogo a lacrime disperate. Aedi e rapsodi vagavano per la Grecia antica narrando le gesta di eroi e semidei, creando degli esempi da imitare. Non solo Achille, ma anche Odisseo è spesso descritto colmo di lacrime, di cui non si vergogna affatto. E come lui ogni altro eroe omerico. Un’affascinante lettura di questo aspetto dei poemi è quella operata da Matteo Nucci nel suo Le lacrime degli eroi, saggio che mette in luce come il rapporto con il pianto sia andato modificandosi repentinamente nel mondo greco già nei secoli che separano la formazione dei poemi omerici dall’età cosiddetta classica. Cosa abbia determinato questo mutamento è arduo da definirsi, ma è interessante a riguardo l’analisi del pensiero di uno dei più celebri filosofi di tutti i tempi: Platone. Nella Repubblica, infatti, lo scrittore mette in campo la propria opinione in merito alla costruzione di uno stato ideale, soffermandosi lungamente sul tema educativo. Sa bene, chi scrive, che il modello di confronto è quello omerico e infatti, tra una battuta e l’altra del dialogo, i protagonisti dibattono sul carattere dei personaggi dei poemi, arrivando a stabilire cosa sia giusto mostrare e cosa no: «Correttamente dunque elimineremo i lamenti funebri degli uomini rinomati, e li lasceremo alle donne (ma neppure a quelle più degne), e agli uomini da poco». Ciò che sembra allarmare Platone è il rischio che alcune immagini e narrazioni rendano più deboli gli uomini poiché quelle «forse vanno bene per un altro scopo; ma noi temiamo per i nostri difensori che un tale brivido non ce li renda più caldi e più molli del dovuto». Il punto d’origine di questo timore potrebbe collocarsi nell’approccio al tema più ampio delle emozioni, forze quasi divine calate nell’uomo e spesso incontrollabili o direttamente ispirate dagli dei, e nella conseguente necessità di tenerle a bada. Si è di fronte a un approccio coercitivo al tema del pianto, condito peraltro da una notevole misoginia tipica della cultura greca, che non verrà mai (o quasi mai) abbandonato. Persino Aristotele, che sul tema dell’arte ha posizioni molto diverse rispetto a Platone, nella Poetica descrive come le emozioni debbano giungere alla catarsi, vadano cioè in un certo senso epurate, espellendone la parte in eccesso. È curioso che il termine con cui chiama la parte in eccesso delle emozioni sia lo stesso che il filosofo utilizza per descrivere la fuoriuscita del sangue mestruale.

Dall’antichità a oggi poco si è perso di quel substrato eteronormato che vuole l’uomo virile e controllato, la donna emotiva e fragile (anche se altrettanto aggredita, basti pensare al pianto di Elsa Fornero in occasione della presentazione della riforma delle pensioni nel 2011, e all’atroce campagna mediatica conseguente), in una dialettica senza respiro che impone atteggiamenti consoni e vieta quelli sbagliati; imponendo un modello culturale che è sovradeterminazione delle nostre emozioni. Dovremmo forse tornare a prendere esempio da Achille, raccogliere cenere e cospargercene il capo, piangere e piangere ancora, senza temere di apparire deboli, poiché, lui ci ricorda, «sta bene saziarsi di pianto». 

Pubblicato sul numero 47 della Falla, luglio/agosto/settembre 2019

Foto: Sherwood.it