Del cinema, Pasolini diceva che era un’esplosione del suo amore per la realtà. Ma quanto, nel cinema, c’è di reale e quanto di inventato? Quanto un film – e, più in generale, una serie televisiva – è cronaca della realtà e quanto, invece, è narrazione di una visione? È una partita difficile, che si gioca sui campi non sempre agevoli del realistico e della rappresentazione, che non è rappresentanza anche se spesso si mescola a essa.

Abbiamo già accennato come, anche nell’universo dei cartoni, adultǝ e meno adultǝ ricerchino figure affini e modelli positivi da seguire, o negativi da evitare. Molto probabilmente quegli esempi ci servono come guida e, altrettanto probabilmente, tuttǝ noi sentiamo l’esigenza di riconoscerci in qualcunə e contemporaneamente di essere rappresentatǝ e legittimatǝ a esistere da qualcunə. Lo mostra bene questo video di TikTok in cui bambine nere, alcune anche abbastanza grandi da conoscere perfettamente la differenza fra realtà e fantasia, si commuovono davanti al trailer del nuovo live-action della Disney ispirato al classico La sirenetta. Potremmo fermarci a discutere del palese processo di whitewashing messo in atto dal colosso dell’animazione negli ultimi tempi, ma questa volta non centreremmo il punto: il nocciolo della questione è che tutte quelle bambine, vedendo finalmente sullo schermo un’attrice nera impersonare Ariel, hanno davvero potuto provare empatia con la protagonista.

La sceneggiatura di un qualunque progetto televisivo o cinematografico diventa quindi molto importante per la rappresentazione. Troppo spesso assorbiamo dal grande e dal piccolo schermo storie di protagonistə e comprimariǝ banali, scialbǝ o, peggio, così lontanǝ dalla realtà da non poterci rappresentare in alcun modo. Come purtroppo ci insegna Boris, serie televisiva italiana da poco tornata in auge con la quarta stagione resa disponibile da Disney+, non sempre autorǝ e sceneggiatorǝ sono all’altezza di un ruolo così centrale. A volte, mancano le conoscenze per raccontare e descrivere una situazione o unǝ personaggiǝ, altre manca solo la voglia di approfondire. 

Prisma, altra nuova serie questa volta targata Prime Video, ha compiuto una piccola rivoluzione in questo senso: è il primo lavoro – soprattutto, fra quelli made in Italy a intraprendere un percorso di scoperta corale fatto di identità di genere, integrazione razziale, scontri generazionali tra genitori e figliǝ, bullismo, autolesionismo e disabilità, senza mai forzare la mano, ma inserendo tutto in una trama fluida e semplice, nonostante le drammaticità. Carola, ad esempio, interpretata dall’attrice 22enne disabile Chiara Bordi, ha una protesi a una gamba: Ludovico Bessegato e Alice Urciuolo, creatorə e sceneggiatorə di questo teen drama e già collaboratorǝ in Skam Italia, non solo hanno scelto di rappresentare la disabilità attraverso una persona veramente disabile, ma anche di avvalersi di chi è veramente consapevole della situazione nella stesura della personaggia. Dietro Carola, infatti, si cela Sofia Righetti – modella, musicista, autrice e formatrice veronese in sedia a rotelle – che, dal suo profilo social, afferma: «Carola è la prima personaggia disabile sessualmente auto-determinata e meravigliosamente tr0ia della storia delle serie tv italiane. È risolta, è vera, non è una “donna a metà” come si è sentito dire in film di scarso valore, non è nemmeno “fortunata se qualche ragazzo se la caga”. Lei sa quello che vuole e se lo prende con l’irriverenza di qualsiasi adolescente. Sa il valore che ha, lo sanno le sue amiche, gli amici, lo sanno tutti».

Un modo di porsi nei confronti della narrazione che rifugge pietismo e abilismo e che trova conferma anche nelle parole di Bordi che, in un’intervista a Donna Moderna, dichiara: «Il fatto che in una serie young adult ci sia una protagonista con una disabilità serve a cambiare prospettiva. Perché oggi il modo più efficace per normalizzare la disabilità è rappresentarla. Ho pensato però che se le persone vedono anche le protesi sotto un altro punto di vista, come se fossero un capo d’abbigliamento o una cosa figa, allora ci si può discostare dal concetto di disabilità come malattia». E, forse, allora è per questo che alla stessa Righetti piace tanto la sua Carola. Come chiosa lei stessa su Facebook: «Finalmente, ai media viene data una rappresentazione giusta di come devono essere le cose, senza pietismo. C’è tanto di me in Carola e ne sono orgogliosa».

Ma, se abbiamo capito quanto sia indispensabile che chi prende in mano il pennello per dipingere il ritratto di unǝ personaggiǝ sappia con precisione quali colori stendere sulla tela, ancora siamo qui a chiederci se l’attorə che poi veste quei panni debba veramente avere quelle caratteristiche, e la risposta non è immediata. 

Grandi interpretazioni del passato, come quelle di Daniel Day-Lewis in Il mio piede sinistro – attore non disabile che interpreta un personaggio disabile – o quella di Tom Hanks in Philadelphia – attore eterosessuale e Hiv negativo che interpreta un personaggio omosessuale Hiv positivo – sono da buttare alle ortiche? 

A onor del vero, Hanks dichiara che oggi non accetterebbe più la parte di Andrew Beckett, perché non si reputerebbe credibile. Per fortuna, la coscienza individuale e collettiva si fa via via più attenta e consapevole: se un tempo le donne non erano nemmeno contemplate nell’interpretazione dei ruoli a loro destinati, oggi neanche ci poniamo il problema, ed è questo il solco che dovremmo seguire per una rappresentazione più autentica ed eterogenea in cui tuttǝ possiamo davvero esistere.

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