FANTASMI E ATTUALITÀ DI MARIO MIELI
Come dice Stefano Casi in uno scambio con Paolo Rumi del settembre passato su Facebook, «il film non è un documentario» ma «una fiction», il che a suo dire significa: «lo sguardo di autori contemporanei su un evento o un personaggio del passato». E di pura fiction effettivamente si tratta. Avevo infatti chiesto al regista Andrea Adriatico di inserire nei titoli di coda la frase abituale: «Questo film è frutto di una interpretazione libera di avvenimenti, racconti, persone e relazioni», in maniera che il pubblico, soprattutto quello che di Mieli ha appena sentito parlare, fosse orientato onestamente. Ma non mi sembra, a meno che mi sia sfuggito, che questo sia avvenuto.
È sorprendente che Casi si stupisca del fatto che «l’astio violento contro il film» sia arrivato da* attivist*. Quest’astio non l’ho incontrato, ma un certo orrore sì. Forse Casi non si rende conto che questi attivisti il pensiero e l’opera di Mario li studiano per davvero e li conoscono bene, che ne sono marcati dal di dentro, compresi i giovanissimi sul campo, e che la persona la conoscono altrettanto bene, dal momento che Mario ha lasciato documenti e testimonianze che restituiscono tutta la complessità di una voce potente, attualissima e futuristica – zittita dall’interpretazione del film. La pacca sulla spalla del gay buono, la macchietta prefabbricata e stereotipata depurata dalle convinzioni politiche o dall’impegno contro il revisionismo del movimento, dall’urgenza della critica di un sistema di cui si sente il frutto, non può che offendere. Essa svuota, tra l’altro, tutta l’intensità affettiva e creativa, tutta la generosità, che sono così profondamente caratteristiche della persona e dello stile di Mario.
Quello tra Mieli e Adriatico è un incontro mancato, almeno per il momento. Ma che probabilmente non smetterà di mancare, visto che marciano su binari radicalmente separati. Quello di un regista che sembra genuinamente credere all’importanza di confezionare per il grande pubblico il lato “umano” della questione gay e avere il benestare della sciuretta a cena col massone, e quello di un attivista che aborre integrazione e riformismo e non smette di denunciare la tendenziosità consumistica della benevolenza omosessuale o identitaria. Perché per Mario questo film sarebbe risultato reazionario, un contributo alla logica del sistema che non ha smesso di combattere.
C’è da chiedersi in che misura gli autori siano a conoscenza delle dure critiche di Mieli al paternalismo e alla misoginia gay, nonché all’esibizionismo e all’arroganza che le accompagnano e che spesso si sposano con la logica dello spettacolo. Come mi sono espressa altrove, a Mario premevano immensamente tanto sincerità quanto serietà, due facce di una stessa medaglia etica e politica. Serietà è conoscere, studiare, esser precisi; è non smettere di aprirsi all’alterità, alla diversità, così come alla donna in sé, confrontando le proprie censure e la propria ignoranza, il proprio fallocratismo (qualsiasi sia la scelta di genere), le proprie derive integrative. Va aggiunto che la sua traiettoria esistenziale, che l’ha condotto alle esperienze schizofreniche e a certo misticismo, era incessante e coraggiosa maniera di tastare il terreno di un godimento altro, che frantumasse la monocromia fallica del potere.
E questo, noia del film a parte. Come Fiammetta Santini si è espressa (cugina, lei sì amica di Mario durante l’intera vita), «bisogna proprio impegnarsi per fare un film su Mario che risulti persino noioso». Con una vita brillante, spudorata, tragica, affettuosa e sperimentale come la sua, anche in versione macchietta, per farne un film noioso bisogna mettercela proprio tutta.
Un consiglio: leggere La gaia critica. Attentamente.
New York, 27 dicembre 2020
Immagini nel testo da mymovies.it e da quinlan.it
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