DEL SOVRANISMO, DELL’AMBIENTE E DELLA FINE DEL MONDO
di Francesco Colombrita
Il cortile del vicino è sempre più verde, ma almeno è suo, e finché il suo prato all’inglese permane nell’alveo della proprietà privata ogni abitante del consesso civile può star certo che il proprio non fuggirà da nessuna parte. Un’estrema ancora di salvezza, in un mare agitato dalle onde della deregulation e della progressiva perdita di stabilità, frutto perverso di un vero e proprio mondialismo a senso unico che imperversa da decenni come direzione apparentemente inderogabile della modernità. Al di là del recinto che ci separa dalla proprietà altrui sta pur sempre lo Stato, quello di diritto, il nostro porto sicuro che grazie a un codice comune regola, quando occorre, il vivere privato.
Fin qui nulla di troppo strano, senonché negli ultimi anni, quello stesso Stato è divenuto l’arroccamento identitario ontologico per tutte quelle persone che, nel mare di cui sopra, si sentono alla deriva. I vicari di questa rinnovata fede sono i cosiddetti sovranisti, i quali derivano il nome della loro ideologia da un sostantivo, sovranità, che in diritto significa «potere originario e indipendente da ogni altro potere». Potere che i sovranisti attribuiscono al popolo, e il cui unico scopo è costruire un muro, ideologico o fisico, attorno al nostro cortile comune.
Per i sovranisti, il primo nemico da cui dovremmo difenderci sarebbe ovviamente l’Europa, secondo la loro narrazione autrice di terribili inferenze e soprusi. Tuttavia, allargando lo spettro d’indagine, pare evidente che il problema vada ampliato al mondo intero. Cosa succede se ogni decisione presa nel nome dell’interesse comune degli esseri umani viene percepita come ingerenza di un’alterità monocratica?
C’è almeno un tema che non può sottrarsi a questa domanda e che, putacaso, è soggetto a negazione, in primo luogo proprio dalle forze sovraniste: il cambiamento climatico. Le implicazioni dell’Amazzonia in fiamme, o della microplastica che ingeriamo in quantità sempre maggiori, esulano dai confini nazionali, per riguardare l’umanità tutta. L’idea di progresso e sviluppo che conosciamo è totalmente insostenibile e si sta per abbattere in una barriera che si è cercato di ignorare a suon di miliardi spesi nella controinformazione. L’élite politico-finanziaria, da anni perfettamente consapevole di tutto questo, si è arroccata nella torre d’avorio dell’1% (quella percentuale della popolazione che possiede metà della ricchezza complessiva del pianeta) schiacciando ulteriormente l’acceleratore. Chi poteva si è aggrappato poi alle frontiere e a un’identità, spesso tutt’altro che aborigena, per non finire come gli ultimi, costretti all’esilio: questo è l’humus dei sovranismi.
Il clima potrebbe finire per essere il banco di prova della capacità dell’umanità di rimettersi in gioco, di cambiare rotta in questo mare in tempesta, senza che l’unica direzione dell’economia e della politica estera sia quella di trovare nuove risorse da sfruttare fino all’esaurimento. Altrimenti il prato del vicino, oltre al nostro, di questo passo non ci sarà più.
Pubblicato sul numero 48 della Falla, ottobre 2019
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