«Si ama per non essere invisibili», leggiamo a metà di Gertrude Stein e la generazione perduta. Una frase più che simbolica nel momento in cui commenta la vita di una persona che è a malapena ricordata, oggi, come una donna lesbica dalle tante amanti. Ma chi era Gertrude Stein? A ritrarla, fotografando alcuni momenti di una vita che ha influenzato la storia, ci provano Valentina Grande e Eva Rossetti, rispettivamente autrice e disegnatrice del fumetto uscito in autunno. In questo sodalizio che dura fin da Il mio Salinger, uscito per Becco Giallo nel 2017, passando per l’acclamato e pluritradotto Feminist Art, le due ci hanno abituato ormai a delle bio-graphic novel che penetrano in profondità nella vita del o della protagonista, frutto di uno scrupoloso e appassionato lavoro di studio. 

Così anche questo Gertrude Stein e la generazione perduta non vuole essere una biografia e non scivola nell’ambizione di dare uno sguardo nuovo; nondimeno mostra un profondo rispetto dell’autrice verso questa figura quasi mitologica, tanto da omaggiare il suo noto odio per la convenzione cronologica dei fatti. È un’opera che non va letta per conoscere la vita di Stein, ma non è destinata nemmeno a chi già conosce tutto (anche se potrebbe essere una vera chicca e rivelarsi un gioco gustoso il riconoscere i dipinti alle pareti). Lettorə ideale è quella persona che ha sentito parlare di Gertrude Stein distrattamente, in questa o quell’altra occasione, senza capire bene quale sia stato il suo ruolo nella storia. A proposito di ruoli, non sfuggirà a uno sguardo femminista contemporaneo la collocazione di Stein in salotto e della compagna, Alice Toklas, tra le mogli degli artisti o in cucina con le domestiche. Uno degli aspetti del personaggio che la rendono una persona controversa anche nella comunità LGBTQ+, come abbiamo raccontato in un articolo di qualche mese fa che vi invito a leggere per definire meglio l’aggettivo “controversa”. 

Lo scopo di questo fumetto, del resto, non è l’elevazione né il biasimo, ma solo portarci nel dietro le quinte di un tempo e un luogo che hanno prodotto capolavori ben noti – la Parigi dei primi del Novecento.

Così come la narrazione segue un personaggio immaginario che si muove nella vita quotidiana di Stein, allo stesso modo le autrici ci prendono per mano e ci trasportano da una scena all’altra con una fluidità non comune: dall’oggetto che abbiamo in mano, nella sua copertina rigida e satinata dell’edizione Centauria, apriamo il primo capitolo intitolato Oggetti, per finirlo con una cena e passare al secondo, Cibo, che si apre con un pic-nic; quest’ultimo si chiude con un grandangolo di Stein nel suo salotto d’élite, tappezzato dai dipinti della sua collezione, e in paio di pagine ci ritroviamo nel terzo ed ultimo capitolo, alla ricerca di Picasso al lavoro nel suo studiolo parigino.

E mentre ci rendiamo conto che di Picasso si parla tanto ma ancora non l’abbiamo incontrato, le tavole di Eva Rossetti ci fanno davvero sentire come se stessimo sbirciando all’interno di quello studio: cogliamo quell’attimo di immobilità denso di significati che immaginiamo ma non conosciamo davvero. Come sbirciare dentro il genio.

Ci avete mai fatto caso che la parola “genio” non viene mai declinata al femminile? Nemmeno in questo periodo fervido in cui la sociolinguistica è pane quotidiano per chiunque, e la riabilitazione e diffusione dei sostantivi grammaticalmente corretti – in certi ambienti – stanno diventando un’abitudine, è rarissimo sentire “genia”. Potrebbe anche essere a causa della sua vicinanza con ingegno, eppure il termine “genio”, come sostantivo che indica chi ha la mente geniale, avrebbe tutte le carte in regola per essere declinato anche al femminile.

Ci ha pensato Valentina Grande, naturalmente, senza indulgere in alcun giudizio ma semplicemente sollevando il dubbio. Come possiamo pronunciare con naturalezza “genia” se abbiamo così poche rappresentazioni di donne considerate tali?

Gli scritti di Gertrude Stein sono difficili, ce lo racconta Grande nella postfazione, eppure in quel periodo la libreria Shakespeare and company – la cui proprietaria era amica anche di Stein – pubblicò Ulisse; uno tra i testi sperimentali più ardui della letteratura contemporanea, scritto interamente come un flusso di coscienza (tecnica che anche Stein aveva sperimentato negli stessi anni) e che più tardi valse a James Joyce proprio l’appellativo di genio.

Se le donne avessero avuto lo stesso spazio dedicato agli uomini – nel mondo artistico così come in tutti gli altri ambiti – forse oggi riusciremmo a dire genia con la stessa naturalezza di prostituta? 

Gertrude Stein era una donna del XIX secolo emancipata, indipendente, colta e visionaria: è difficile credere che non avrebbe potuto produrre opere degne di nota se le fosse stata concessa la fiducia che lei concedeva agli artisti che tanto dipendevano dal suo giudizio. Mentre lei è passata quasi inosservata, dal suo salotto sono passati invece i grandi talenti novecenteschi, da Matisse a Picasso, da Hemingway a Fitzgerald. Tutti uomini, naturalmente. Ed è così che Valentina Grande fa il suo migliore omaggio a Stein – e simbolicamente a tutte le donne nascoste dietro i genî maschili – decidendo di far raccontare la sua storia a un uomo.