Viene da chiedersi che senso possa assumere oggi una festa del lavoro in questo Paese. Innanzitutto perché la parola “festa” per queste ricorrenze è sempre anacronistica e inadatta, basti pensare al 25 aprile, spesso definito “festa della liberazione”, o all’8 marzo ancora troppo equivocato come “festa della donna”; in secondo luogo perché, in una Repubblica la cui Costituzione apre citando come tema sostanziale il lavoro, il primo maggio dovrebbe apparire come un Natale laico italiano, ma non è certo così.
Fa sorridere, a pensarci, che una giornata nata dalle lotte operaie legate alla riduzione dell’orario lavorativo giornaliero, sul finire del 1800, sia diventata poi festiva (nel senso di giornata non lavorativa) solo sotto il regime fascista recentemente insediato; come fa sorridere celebrarla oggi, quando nel 2023 è stata utilizzata dal governo Meloni come trampolino di lancio per un decreto sul lavoro che allargava i confini del precariato.
Allo stesso modo suonò inquietante chiamare “Decreto Dignità” una norma che riduceva l’estensione temporale dei contratti a termine. Inquietante perché se di dignità vogliamo parlare, allora dovremmo chiederci come farlo in un Paese in cui lo stipendio medio lordo percepito è scivolato in pochi anni da circa 33000 euro lordi verso i 29000 lordi. Dato ancora più allarmante per quanto riguarda le persone under 30, il cui stipendio medio lordo si attesta intorno ai 15000 euro. Inquietante anche se consideriamo che dal 2020, anno in cui si stimava che una donna percepisse di media l’11,5% in meno di stipendio, a oggi il gap di genere si è ulteriormente aggravato. È difficile parlare di dignità in un Paese in cui oltre 3 milioni di persone impiegate vivono comunque sotto la soglia di povertà. Come sempre, più che un giorno di festa, bisognerebbe fare del primo maggio un giorno di lotta, una lotta donchisciottesca contro i mulini a vento del potere, un potere finanziario e capitalistico che stringe sempre più la sua morsa su lavoratori e lavoratrici. Si dirà che farebbe prima Alfonso Quijano ad arrivare sulla luna, ma se pare lontano l’obiettivo di abbattere tutto il sistema si può andare comunque per gradi: invece di adagiarci sulla narrazione del poco Pil, dei patti di stabilità e del MES, imponiamo al governo, sia questo o un altro, di fare almeno quel minimo essenziale che serve per iniziare a far sì che chi lavora non si trovi a una settimana dallo stipendio senza soldi in tasca per mangiare. Magari senza continuare a dimenticare chi un lavoro, per altro, non ce l’ha.
Perseguitaci