Oggi, 3 maggio, si celebra la Giornata internazionale per la libertà di stampa. Come ogni anno Reporters without borders pubblicherà la classifica mondiale, basata su una serie articolata di indici, dal contesto socioculturale alle leggi in vigore. L’Italia nel 2023 era al 41° posto, migliorando rispetto al 58° del 2022. Storicamente non siamo mai statǝ campionǝ di questa classifica, pur essendo la libertà di stampa garantita dall’articolo 21 della Costituzione

Essenzialmente per due motivi: le intimidazioni allǝ giornalistǝ da parte del crimine organizzato e (vedi pandemia) di gruppi estremisti e violenti, e il carcere da tre mesi a due anni per il reato di diffamazione a mezzo stampa (art. 595 del codice penale, dall’articolo 13 della legge 47/48 sulla stampa). L’articolo che prevede il carcere, il 13 appunto, è già stato giudicato incostituzionale dalla Corte costituzionale con la sentenza 150/2021. Inoltre l’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, sulla libertà di espressione, garantisce al suo interno anche quella di stampa. Il disegno di legge sulla diffamazione in discussione alla Commissione giustizia del Senato doveva, tra le altre cose, servire ad allinearsi con queste indicazioni. 

E invece, il senatore Gianni Berrino (FdI) ha proposto un emendamento per aumentare il carcere per lǝ giornalistǝ a un massimo di 4 anni e mezzo. Tra lo sconcerto di tutto il mondo politico per questa proposta, alleatǝ compresǝ, lo ha poi ritirato. Ma l’afflato di FdI era quello.

Il 9 aprile la Commissione bicamerale di vigilanza Rai ha approvato un emendamento alle regole della par condicio (introdotte nel 2000 per frenare l’onnipotenza mediatica berlusconiana), che permette allǝ candidatǝ che hanno già incarichi istituzionali di parlare senza limiti di tempo nei tg e nelle trasmissioni giornalistiche pre elezioni europee, purché riferiscano anche delle loro attività istituzionali, e che consentirà di trasmettere su Rainews tribune politiche senza contraddittorio e senza alcuna mediazione giornalistica, precedute solo da una sigla. Questo ha fatto, finalmente, alzare la testa dellǝ giornalistǝ Rai, o almeno di quellǝ iscrittǝ al sindacato Usigrai, che hanno letto alla fine dei tg delle tre reti ammiraglie un comunicato molto duro contro questa deriva del servizio pubblico.

Queste le cose più gravi, che puzzano davvero di regime.

Poi c’è stato il caso di Antonio Scurati, scrittore premio Strega e tradotto in 40 paesi con la sua M, trilogia sulla storia di Mussolini e dell’italia fascista. Scurati avrebbe dovuto leggere un suo monologo sul 25 aprile (versione ridotta dell’articolo pubblicato su Repubblica il giorno prima, ndA) nella puntata del 20 aprile della trasmissione Chesarà…, condotta da Serena Bortone. L’intervento, come è noto, è stato bloccato. A oggi le ragioni della censura non sono note, ci sono state varie supposizioni, screenshot sgranati di comunicazioni interne che hanno girato. Alla fine tutta pubblicità per Scurati, il cui monologo è stato poi letto e pubblicato ovunque, a partire dal profilo Facebook della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, e per Serena Bortone, la cui trasmissione ha uno share davvero molto basso.

Questo episodio è servito, apparentemente, a scuotere un minimo le coscienze italiche progressiste (e anche l’Usigrai), che ora gridano alla censura contro il malvagio governo fascista. Che, intendiamoci, malvagio lo è davvero, per carità, infatti dalla stampa estera è definito per quel che è: un governo di estrema destra.

Ci sono molti però, qui citerò il più eclatante dell’ultimo anno, altrimenti bisognerebbe scrivere un saggio. Dal 7 ottobre, durante i mesi di massacro della popolazione palestinese da parte di Israele, il racconto giornalistico occidentale è stato per lo più una favola Nato, e nessunǝ si è stracciatǝ le vesti per questo, anzi, ci siamo puppatǝ il corsivo di Merlo contro Zerocalcare in cui si faceva un assurdo paragone tra i fantastici sessantottini e i loro ideali e i giovani di oggi (Calcare, non ti offendere ma ormai sei di mezza età pure tu) “pro Hamas”.

Nei Tg si parlava (e si parla) solo di ostaggi israeliani e quasi mai delle persone morte ammazzate, 10mila circa nel primo mese, oggi arrivate a 40mila, facendo una stima per difetto. Abbiamo visto interviste a parenti di ostaggi israeliani, storie di soldati gay che si chiedono la mano in mezzo alle macerie del luogo che hanno appena distrutto, menzogne sul numero di morti e sulle modalità di uccisione, notizie false diffuse ancora e ancora. Assistiamo a una narrazione mediatica che punta molto sulla disumanizzazione delle persone palestinesi, completamente ribaltata rispetto alle vittime per esempio ucraine.

Non una parola sulla prima, drammatica conferenza stampa dei medici tenuta ancora in ottobre tra macerie e cadaveri, non una parola sui bambini e bambine che si scrivono il nome sul corpo per essere identificatǝ in caso muoiano, poche parole e non ai Tg generalisti su neonati prematuri lasciati cadaveri a putrefarsi negli ospedali evacuati nonostante Israele avesse promesso di salvarli. 

Non so se un qualche Tg (un pugno di testate lo ha fatto con articoli, ndA) abbia mai nominato Wael Al-Dahdouh, reporter palestinese, capo dell’ufficio di Gaza di Al Jazeera, un professionista notissimo, con 4,6 milioni di follower su Instagram, che ha avuto la famiglia annientata dal massacro, compreso il figlio Hamza, anche lui giornalista, e continua indefesso a raccontare la guerra. Dall’inizio del genocidio sono stati uccisi 100 gioirnalisti, più che in tutta seconda guerra mondiale, più che in Vietnam.

Questo tipo di copertura mediatica in stile fiaba della Nato non c’è solo in Italia, ma molto, troppo in Italia. 

Dobbiamo ringraziare i social per la diffusione continua di notizie da parte delle persone direttamente interessate, purtroppo non accessibili a tutti. Immaginate il signor Mario, onesto pensionato delle poste in area Pd (quindi per lo meno di centro), che non sa usare internet se non per whatsapp e le partite. Mario non sa l’inglese, si informa ancora con i Tg, al massimo con la testata locale, non ha gli strumenti per cercare fonti affidabili non ufficiali o sui giornali di altri paesi. Quindi il signor Mario tenderà a pensare che quello che vede e ascolta sia vero, e come dargli torto?

Vi svelo un segreto: il giornalismo imparziale non esiste e chi vi dice il contrario mente

La BBC è stata costretta a scusarsi per i suoi bias nella copertura della guerra e delle manifestazioni pro-Palestina, e alcunǝ giornalistǝ hanno scritto una lettera aperta in merito all’operato del loro datore di lavoro. Sì, la BBC, quella che citano sempre come esempio quando si parla di giornalismo imparziale, e in quanto tale di qualità.

Si può fare il proprio lavoro onestamente, si può rispettare la deontologia professionale, si devono offrire più versioni di un fatto ascoltando le parti interessate, si può avere fiuto, scavare, studiare, trovare dati a supporto, o partire dai dati per scovare notizie, ma il giornalismo imparziale continua a non esistere. Siamo esseri umani, tutto è politico per noi, e anche la scelta di una parola, un aggettivo, del registro linguistico, dei criteri di notiziabilità per la tua testata, tutto è una scelta che crea un racconto preciso.

La libertà totale e assoluta di stampa non esiste: ci sono sempre interessi economici di mezzo. In Italia perché il mercato si è sviluppato in modo tossico, con i quotidiani gioco a latere di industriali, e che non hanno mai osato dire una parola contro il proprio editore. Unico cuscinetto democratico il rapporto fiduciario tra editore e direttore, che in molti periodi, va detto, ha funzionato. All’estero per il capitalismo, soprattutto negli Stati uniti, dove è nata la definizione di watchdog, cioè dellǝ giornalistǝ come cani da guardia del potere. Il giornale è watchdog finché questa postura fa vendere copie/accessi al sito/quello che vi pare. Ma non esageriamo.

La libertà di stampa è un’utopia a cui tendere, ma ci sono delle stelle polari che ancora oggi indicano la direzione, a chi vuole (tentare di) seguirla. La base deontologica del giornalismo sta tutta nell’articolo 2 della legge 69/1963 che istituì l’Ordine dei giornalisti:

«È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede.

Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte, e riparati gli eventuali errori.

Giornalisti e editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse, e a promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione fra giornalisti e editori, e la fiducia tra la stampa e i lettori».

Io, nei miei giorni migliori, col pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà gramsciani, voglio credere ancora che sia possibile percorrerla.

Approfondimento: giornalisti e codice penale, ovvero tutti gli articoli del codice penale che riguardano lǝ giornalistǝ.

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