«Grazie all’omosessualità alcuni hanno delle capacità diverse dagli etero». La fiera dello stereotipo non finisce mai, come ben sappiamo. Relegati nei ruoli apicali del miglior amico della protagonista di turno per decenni, la rappresentazione degli uomini omosessuali ha fatto sì che alcune caratteristiche peculiari, o semplicemente la sensibilità e l’emotività – mutuati dagli stereotipi sociali legati alla donna – diventassero un marchio di fabbrica. Quasi in un processo di reificazione costante – anche un po’ da sindrome di Stoccolma – le abbiamo abbracciate, attraversate e fatte nostre. Forse un po’ troppo, se Rocco Casalino attribuisce al suo essere gay quei doni che lo hanno fatto emergere nel mondo del lavoro.

Ma è veramente così? Lo stesso Casalino dichiara che «se ci fosse una pillola per diventare etero» la prenderebbe, per poter finalmente trovare una relazione stabile. Ed è qui che le dichiarazioni dell’ex portavoce di Giuseppe Conte svelano la contraddizione in cui vivono le persone con un’identità sessuale differente da ciò che viene percepita come norma, di cui possiamo rintracciare similitudini nelle esperienze delle persone costrette ai margini. In un mondo del lavoro in cui le soft skills – le cosiddette competenze trasversali frutto delle proprie esperienze personali – sono il feticcio di chi opera nelle risorse umane, sembrerebbe allora che chi si trova in una condizione di minoranza e marginalità sistemica abbia effettivamente la possibilità di riuscire maggiormente rispetto a chi, per classe, genere, razza, orientamento e corpo, vive nella parte fortunata della popolazione. Se da un lato essere frociə ti dà una marcia in più nel mondo del lavoro, dall’altra spesso ti toglie la possibilità di essere felice – che poi sia una relazione, e di quale tipo, a rendere felici, è discutibile. 

Perché le persone LGBTQIAP+, come altre minoranze, sono state costrette – e lo sono tuttora – a costruire relazioni e forme di familiarità spesso non riconosciute, non basate sul principio di sangue o su ruoli socialmente prestabiliti, in un mondo diseguale e discriminante. 

Lo hanno fatto partendo da una condizione di svantaggio sociale e materiale, da traumi vissuti collettivamente come segregazione razziale, discriminazione sistemica, capitalismo. Angela Davis lo racconta in Donne, razza e classe quando descrive il sistema dei ruoli di genere, meno rigido nelle piantagioni schiaviste rispetto alla controparte bianca. Ann Cvetkovich in An archive of feelings approfondisce come il trauma e i sentimenti negativi legati all’essere minoranza possano invece essere alla base di politiche queer degli affetti, nonostante nascano da condizioni di oppressione. Una condizione che non rende tuttavia migliori le persone discriminate rispetto alla maggioranza ma è solo una delle tante conseguenze di un mondo iniquo e violento che porta a sviluppare strategie e strumenti di sopravvivenza che possono sembrare vantaggiose in alcune situazioni ma in realtà rappresentano solo la punta dell’iceberg. Infatti, la maggior parte delle persone che fanno parte di una minoranza in questo sistema è infelice. 

O peggio: soccombe.

Immagine nel testo da globalist.it