SUL CONSUMO DI PLASTICA, IL COVID-19 E LE CONSEGUENZE DELL’USA E GETTA

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Chiuso il vagone ristorante sul treno per Ortisei, al ragionier Fantozzi non resta che comprare un cestino con la cena da un ambulante in una delle stazioncine di passaggio. Per 50 mila lire, «comperò nell’ordine: una forchettina di plastica, un coltellino di plastica, stuzzicadenti di plastica, un bicchierino di plastica, un’ala di pollo… di plastica». L’unico oggetto non di plastica è la mela, che però è bacata. Frustrato, Fantozzi raccoglie tutto in un sacchetto (di plastica) e lo lancia fuori. Il proiettile rientra da un altro finestrino, centrando in pieno il controllore. Gag facile e diretta che oggi, a distanza di 40 anni esatti da Fantozzi contro tutti, è diventata una metafora del nostro complicato rapporto con la plastica, in particolare con quella usa e getta che non sappiamo bene come smaltire senza inquinare. 

Posate di plastica, cannucce, piatti, bottiglie e, da quando la pandemia ci costringe a utilizzarle nella nostra vita sociale, anche mascherine chirurgiche, guanti monouso, visiere protettive e altri dispositivi di protezione individuale, che come mattoncini di lego (!) ingrandiscono il Plastic Trash Vortex e le altre isole artificiali composte di rifiuti che si sono create da quando l’umanità fa uso massiccio di plastica. 

Leggendo i dati messi a disposizione dall’Unione Europea, si scopre che il 43% dei rifiuti che finiscono in mare, e che alimentano questa nuova geografia galleggiante, è composto proprio da plastiche monouso. Non ce le abbiamo tutti i giorni sotto i nostri occhi, sono confinate dalle correnti marine in zone poco battute degli oceani, ma proprio come per il cestino di Fantozzi, averle nascoste alla nostra vista non significa che non abbiano conseguenze negative sulla nostra vita.

Secondo uno studio del 2014 del Programma per l’Ambiente delle Nazioni Unite, la situazione è anche peggiore. Ogni miglio quadrato di mare, infatti, contiene circa 46mila pezzi di plastica. Alcuni sono di grandi dimensioni, ma la maggior parte consiste di pezzettini talmente piccoli che non sono visibili a occhio nudo. Quando sono inferiori ai 5 millimetri di dimensione, gli scienziati li definiscono “microplastiche” e possono facilmente entrare a far parte della catena alimentare. 

Da uno studio condotto da Greenpeace e dall’Università di Genova nelle acque dell’alto Tirreno, tra il 25 e il 30% dei pesci e degli invertebrati analizzati presenta tracce di microplastiche nel proprio organismo. Si tratta soprattutto di PE, il polietilene, uno dei materiali più comuni nei packaging e nei prodotti usa e getta, perché adatto a entrare in contatto con il cibo. Peccato che spesso si trovi anche dentro il cibo.

È presto per dire quali siano le conseguenze per la salute degli animali e dell’essere umano, ma si è scoperto che il nostro sistema immunitario, quell’insieme di risposte del nostro organismo all’invasione di agenti patogeni provenienti dall’esterno, non sembra in grado di fare altrettanto con le particelle di plastica. 

Il rischio, quindi, potrebbe essere quello che, lentamente nel corso delle nostre vite, le microplastiche si accumulino nei nostri corpi come un agente tossico che uccide poco a poco.

La preoccupazione per l’ambiente, nata dalla circolazione di questo tipo di informazioni, e aumentata anche dal forte impatto di iniziative come i FridaysForFuture ideati da Greta Thunberg, ha spinto all’approvazione di una direttiva europea che prevede l’eliminazione totale delle plastiche usa e getta entro il 2021 e un più ampio piano programmatico su sostenibilità e cambiamento climatico chiamato Green New Deal. Ne fanno parte, indirettamente, anche iniziative come la plastic tax, fortemente avversata da alcuni settori economici italiani, che le norme di comportamento per la pandemia hanno messo in pausa. 

Anzi, proprio l’utilizzo di mascherine e guanti usa e getta rischia di aumentare l’impiego dei tipi più inquinanti di plastiche. Secondo una stima del Politecnico di Torino, se tutte le persone che lavorano nel nostro Paese utilizzassero le mascherine chirurgiche (che contengono plastica) per svolgere le proprie mansioni, in Italia ne servirebbero 900 milioni. Al mese. Lo studio si basa sulle condizioni più restrittive emanate durante il lockdown ed è una stima pessimistica, ma dà la dimensione di che tipo di pericolo si possa correre in questo momento delicato: dimenticare di tutelare l’ambiente, e di conseguenza anche la nostra salute, in nome di una fretta a risolvere i problemi contingenti della ripresa dopo la chiusura. Dobbiamo tutt* rimanere vigili affinché l’urgenza non sconvolga le priorità a lungo termine e ci eviti di fare la fine del controllore nel film di Fantozzi.

Pubblicato sul numero 57 della Falla, luglio/agosto/settembre 2020