Giuseppe era un ragazzo bellissimo: quando nel 1936, in pieno ventennio fascista, fu notato dalle forze dell’ordine in compagnia del marchese Franzo, descritto dal commissariato come “persona alquanto depravata e viziosa“, non poteva immaginare l’inferno a cui andava incontro. Giuseppe aveva 22 anni. Appena due anni dopo, la commissione provinciale di Roma condannò lui e il marchese a cinque anni di confino, più di quanti venissero imposti ai condannati per mafia. Il marchese scappò in Svizzera, Giuseppe invece fu mandato ad Aliano, nel Materano, il luogo reso celebre dal confino di Carlo Levi. “Ho la penosissima impressione di essere arrivato nel paese del Silenzio“, scriveva. “Non è però il silenzio classico di pace e serenità ma un silenzio fatto di sofferente incoscienza. Qui si è veramente segregati dall’umanità, fra montagne logore di silenzio e di desolazione”.

Quella di Giuseppe è una delle 29 storie di confino ricostruite da Cristoforo Magistro nella mostra Adelmo e gli altri ospitata al Cassero fino al 5 maggio. Omosessuali, diremmo oggi. Pederasti, viziosi, depravati, dicevano allora. La storia di Giuseppe, però, è diversa da tutte le altre: il suo finale è improvviso, parla di morte per annegamento, lascia intuire si tratti di un suicidio. Giuseppe morì di omofobia, in anni in cui né l’omofobia, né tanto meno l’omosessualità, avevano ancora fatto capolino sui vocabolari della nostra lingua. Giuseppe lottava contro un mostro senza nome.

Questo 17 maggio, nel rinnovare il nostro impegno contro omo-lesbo-bi-transfobia, ricordiamoci anche di Giuseppe, della sua lotta senza scampo, delle “montagne logore” che ne hanno inghiottito i sogni. Perché la nostra battaglia è anche un riscatto, un atto di giustizia dovuto a tanti giovani come lui, il senso che siamo chiamati ora a dare a tante morti che senso non hanno.

pubblicato sul numero 35 della Falla – maggio 2018