C’è un’immagine molto significativa che riassume la campagna di odio che il gruppo chiamato La Manif Pour Tous conduce da tempo contro la comunità LGBT+: due sagome grigie, identiche, asessuate, risultato della spersonalizzazione di “un ragazzo e una ragazza”. Stando alle tesi omofobe del gruppo di fondamentalisti cattolici impegnato nella tristemente nota propaganda “anti-gender”, attiva in particolar modo sul fronte dell’educazione nelle scuole, lo scopo del movimento LGBT+ sarebbe quello di “uniformare” e “appiattire” i generi.
C’è una seconda immagine che rappresenta invece un pezzo della nostra storia, è un’immagine piuttosto comune e ricorrente ma la ricordo in particolare per come è stata tratteggiata nel film Stonewall di Nigel Finch del 1995: una preistorica organizzazione “omofila” si prepara a manifestare per ottenere l’uguaglianza dei diritti nell’America bigotta e omofoba degli anni sessanta e per dimostrare che gay e lesbiche sono “persone normali” stabilisce un vero e proprio dresscode dei manifestanti. Uomini coi capelli curati, in giacca e cravatta, possibilmente in tinta unita, donne con camicetta, gonna lunga, tacco basso. Uomini vestiti “da uomini”, donne vestite “da donne”. Sfilata in cerchio, nessuno slogan urlato o cantato, una lenta processione con cartelli in bianco e nero, bandierine a stelle e strisce, silenzio, tranquillità, nessun disturbo – e nessuno se ne accorge!
C’è poi una terza immagine, che in realtà non è solo una, ma migliaia: drag king e drag queen, travestite impacciate, trans*, pirati, sirene, butch, femmes, checche, orsi e orse, dominatrici e master con corredo di schiave e schiavi al guinzaglio, nonni, nonne, gogo boys, bambine, bambini e famiglie al completo, e molto altro ancora, tutt* coloratissim* che sfilano, cantano, ballano ai tanti Pride che la comunità LGBT+ organizza ormai da decenni in larga parte del mondo. Le bandiere arcobaleno sventolano ovunque. Queste immagini le abbiamo ben presenti: sono l’apoteosi dell’autodeterminazione, un caleidoscopio di infiniti volti, corpi, stili di vita, passioni, espressioni.
Qual è il filo rosso che cuce insieme e intreccia queste rappresentazioni? La prima – le sagomine grigie – sfacciatamente denigratoria, è un vero e proprio ribaltamento della realtà, tanto fazioso e spregiudicato quanto odioso e disturbante. Il popolo LGBT+ (ribattezzato “omosessualista” o “gender“) sarebbe impegnato in un tentativo di normalizzazione della popolazione (su scala mondiale!), attraverso l’eliminazione del “colore” e quindi delle differenze tra gli individui. È dunque un problema di colori – e basterebbero le migliaia di immagini dei nostri Pride a confutare questa bizzarra teoria e a rivelare la malafede che la alimenta. Sì, perché è indubbio che frocie e cattofascisti sui colori non si intendono proprio. Da un lato abbiamo una visione un po’ “daltonica” che riconosce nel mondo solo due colori – “il rosa per le femminucce e l’azzurro per i maschietti” – una bicromia binarista che dovrebbe guidare le nostre vite e le nostre scelte dall’abbigliamento al giocattolo, dal grembiulino per la scuola ai confetti per la comunione e via via per ogni aspetto dell’esistenza. Per farla breve c’è qualcuno che sostiene che vogliamo ingrigire il mondo.
Poi c’è la seconda immagine, che è più problematica perché non nasce fuori, ma dentro la nostra comunità. Non è “come gli altri ci rappresentano” con intento svilente ma “come alcun* di noi ci e si rappresentano”. Essere ordinati, puliti, silenziosi poteva essere una vera e propria ossessione per i primissimi movimenti che si organizzavano nell’America bigotta e repressiva guidata dal repubblicano Nixon. Additate come “malate”, “anormali”, “stravaganti”, “pericolose comuniste”, frocie, lesbiche e trans dell’epoca avevano un nemico ben più duro da sconfiggere dell’establishment conservatore, un nemico interiore (oggi diremmo “interiorizzato”) in grado di castrare e paralizzare: la paura.
E le dinamiche della paura si giocavano proprio sul colore: la cravatta tinta unita, i toni smorzati, l’abbigliamento e le acconciature “regolari”, nessuna sbavatura, nessuna concessione alla fantasia, occorreva confondersi con il resto della popolazione per essere visibili, la regola era “essere normali tra i normali”. Una regola che di fatto escludeva dall’azione politica chi non poteva – e/o non voleva! – rinunciare alla propria specificità e diversità, chi non accettava di standardizzare il proprio corpo, l’aspetto e il comportamento ed era relegato all’oscurità, alle strade, ai luoghi chiusi, all’invisibilità. La storia ci ha insegnato che questa “politica del monocromo” non ha pagato.
Il punto di svolta fu la famosa rivolta dello Stonewall all’alba del 28 giugno del 1969, agita da frocie, lesbiche e trans che difficilmente si potevano uniformare e normalizzare perché non avevano scelta, la loro identità era urlata dall’aspetto non conforme e la non-conformità da motivo di dileggio, discriminazione, odio e violenza subiti diventava improvvisamente lo strumento privilegiato dell’azione politica, l’arma da contrapporre all’oppressione normalizzante. Le differenze uscivano allo scoperto e rivendicavano la loro esistenza, la loro dignità e ovviamente la loro favolosità.
Non erano solo differenze di stile, il colore che usciva allo scoperto e lottava per la visibilità era anche – forse soprattutto – il colore della pelle, perché l’etnia era, e purtoppo è ancora oggi, una fortissima fonte di discriminazione nell’America del regime Wasp (white anglo-saxon protestant). Frocie, lesbiche e trans nere e ispaniche furono le protagoniste in prima fila dei moti dello Stonewall, opposero al potere le proprie diversità e già una vastissima pluralità si delineava alle origini di quella che oggi chiamiamo comunità LGBT+. La coloratissima rivolta da cui inizia la storia dei Pride è stata agita poi in larga parte da persone che non appartenevano affatto alle classi più abbienti della società dell’epoca, persone senza reddito fisso, spesso senza fissa dimora, costrette alla marginalità proprio per la loro diversità.
Sì, tra le tante e i tanti dello Stonewall c’erano le povere e i poveri, che però in quei giorni scoprivano un antidoto alla passiva accettazione di una condizione generata dal classismo bianco e dal segregazionismo imposto dall’imperialismo Wasp, e questo antidoto era proprio la fierezza di essere ciò che si è, l’orgoglio che spinge a uscire dall’ombra e rivendicare spazi, dignità e diritti. L’antidoto era il Pride.
Ancora oggi qualche voce di stampo conservatore nella nostra comunità auspica un Pride ordinato, in cui sfiliamo come gli “omofili” americani degli anni ’60, giacca e cravatta, normalizzate e uniformate agli standard di un’accettabilità sociale che è definita da altri, che non è propria della nostra comunità, che si vorrebbe imporre perché i nostri colori fanno paura. È la becera argomentazione sintetizzata nel termine “carnevalata” associato al Pride, che ritorna ogni anno verso la fine di giugno. Ma se il Pride ha un senso – e ce l’ha eccome! – questo sta proprio nell’espressione delle differenze, delle pluralità di generi, orientamenti, sessi, etnie, ruoli, gusti, pratiche. La comunità LGBT+ vive e prospera proprio perché pone tra i suoi valori imprescindibili il rispetto per le differenze. La comunità LGBT+ è ipercolorata, vive nella policromia e reinventa i propri colori di continuo. La bandiera rainbow che svetta con orgoglio è sì composta “solo” da sei colori ma è la rappresentazione visiva più efficace e pregnante di un’infinità di toni, sfumature, nuances. Vogliamo dunque impedire a qualcun* di sfilare al Pride in giacca e cravatta tinta unita? Affatto. Al Pride c’è un unico dresscode: la libertà.
pubblicato sul numero 16 della Falla – giugno 2016
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