Per parlare di genitali in italiano vengono usate tantissime parole. C’è chi ha provato a farne un inventario, arrivando a trovare 744 parole usate per indicare il pene e 595 per la vulva, ma il conto potrebbe non tenere conto di tutti gli eufemismi, le metafore, i soprannomi, le varianti dialettali e i nomi familiari.

Partendo dall’idea che il modo in cui si parla di qualcosa fornisce una buona rappresentazione di come una società vive alcuni argomenti, i termini impiegati per parlare di genitali danno delle importanti informazioni sul rapporto che la società ha con essi, a partire dal fatto che si parla di due genitali ignorando le realtà intersex. Pur tenendo conto dell’evoluzione delle parole, che spesso si allontanano dal loro significato originario per assumerne uno nuovo, le etimologie, o i tentativi di etimologia, possono rivelare degli elementi interessanti.

Partiamo da qualche esempio del “cazzo”. È l’organo genitale di cui si parla di più, ma l’origine del termine è discussa. Per alcunɜ potrebbe derivare dalla parola latina che significava mestolo (cattia), forse per un’affinità nella forma. Questa etimologia non stupisce: quasi la metà delle parole che indicano il pene deriva da un oggetto e molte di queste da un utensile. Il legame non è soltanto di somiglianza nella forma, quanto più con l’idea di qualcosa che si usa, uno strumento, come risulta più chiaro nelle parole “arnese” o “affare”. Tra tutti gli strumenti, non pochi sono quelli che riguardano l’ambito della guerra, come la clava o la mazza, alle quali si può aggiungere il manganello.

Per altrɜ, invece, la parola “cazzo” deriva dal lat. captiare, che vuol dire “infilare, mettere dentro con forza”. L’italiano “pene ha mantenuto il significato della parola latina penis, che indicava in più anche la coda degli animali.

A tutt’altro ambito semantico appartengono le parole che riguardano la vulva, della quale si parla meno – e per questo in questa sede le daremo più spazio – e per la quale c’è confusione anche sul termine medico più giusto (ma è vulva o vagina?). Entrambi i termini derivano da parole latine che significavano fodero, involucro. Non più uno strumento, ma qualcosa di vuoto, da colmare, il cui senso si realizza pienamente solo quando contiene l’oggetto per cui esiste. La parola latina che indicava l’organo genitale era invece cunnus, sopravvissuto in alcuni dialetti, come il sardo e il calabrese, e impiegato per lo più come insulto.

Di grande impiego è la parola “fica” (o “figa” nella variante settentrionale), che sembra derivare dal frutto dell’albero di fico, forse per somiglianza con il fico di colore nero, che se spaccato mostra la parte interna più chiara. Già Aristofane usava la parola greca che indicava il frutto per parlare dell’organo sessuale e il doppio senso sembra essere alla base dell’eccezione linguistica del frutto dell’albero di fico, che mantiene il maschile a differenza degli altri frutti (il pero/la pera, il melo/la mela ecc.). Dalla stessa parola sembrano derivare anche “sfiga/sfigato”, che inizialmente potevano essere riferite soltanto a uomini e che indicavano mancanza di figa, da intendersi per sineddoche, indicare la parte per il tutto, come chi non ha una donna. 

Si tratta di tutt’altro che un caso isolato, infatti molto più spesso che per il pene, le parole usate per la vulva vengono usate per indicare l’intera persona, una donna. Questo avviene per “fica”, “fregna”, “gnocca” e così via, riducendo le donne a un organo sessuale, secondo una pratica sessista, e certamente transfobica, che ha origini antiche: la parola latina cunnus per sineddoche voleva dire “prostituta”.

Una parte considerevole di parole usate per indicare i genitali, infine, fa riferimento agli animali. Per il pene abbiamo “anguilla” o “uccello”, forse per somiglianza nella forma. Meno chiaro è invece il legame della vulva con i roditori, da cui derivano termini come “topa”, “sorca” (femminile di sorcio), “zoccola”, presenti anche in altre lingue (portoghese rata o norvegese mus), mentre l’inglese pussy e il francese chatte fanno riferimento ai gatti. Tra le ipotesi proposte, i topi sono stati visti come simbolo sessuale perché animali particolarmente prolifici (ce ne sono tracce già in Aristotele) o perché legati alla clandestinità e all’essere nascosti, ma forse più semplicemente il legame è con i peli, parte più visibile dell’organo e spesso segno distintivo, come testimonia il siciliano pilu.

Tra gli animali, il pesce presenta un’interessante bizzarria, poiché in tutta Italia indica il pene, ma in alcune zone della Puglia indica la vulva.

Le parole che indicano i genitali sono così tante perché è un tabù e non a caso spesso i genitali sono ancora indicati con il termine latino pudenda, che letteralmente vuol dire “cose di cui vergognarsi”. 

La vergogna contribuisce non poco alla proliferazione di nomi e nomignoli, che esprimono bene il rapporto che la società ha con il sesso, come impariamo ad autocensurarci e il valore implicito che le parole portano e prendono dalla cultura. Anche l’apparentemente neutro “genitali” in realtà etimologicamente fa riferimento alla funzione riproduttiva, che, come si sa, non è certo l’unica.

Per approfondire:

Dizionario storico del lessico erotico italiano, G. Casalegno V.Boggione, 1996.