Il nuovo documentario Netflix sulla rappresentazione delle persone trans tra informazioni utili e scivoloni

Venerdì 19 giugno è uscito su Netflix Italia Disclosure, il documentario diretto da Sam Feder (già regista di Boy I am) e prodotto dallo stesso Feder e da Amy Scholder, scrittrice ed editor, sulla rappresentazione delle persone trans nella storia di Hollywood e della tv americana. 

È un documentario ricco, che piacerà in  particolar modo a chi ha fame di informazioni spesso difficili da reperire, soprattutto in italiano. La narrazione pianamente cronologica e i testi semplici lo rendono adatto a un pubblico anche molto giovane o digiuno di argomenti LGBT+.

Le intervistate sono tutte persone trans, per la maggior parte lavoratrici dello spettacolo, appartenenti a diverse generazioni e capaci dunque di ricostruire una memoria sfaccettata non soltanto di che cosa si è visto sugli schermi negli ultimi 40-50 anni, ma anche di come queste rappresentazioni hanno influenzato il modo in cui le persone trans hanno imparato a pensare se stesse.

Il ricchissimo materiale d’archivio contiene qualche chicca, come le prime apparizioni televisive di Christine Jorgensen raccontate da Susan Stryker, per esempio, o un* magnific* Leslie Feinberg ospite indomit* in un talk show, e svariati pezzi di puro orrore che avevo accuratamente rimosso dalla mia coscienza, incastonati in prodotti (Sex and the city, Ace Ventura) che tant* della mia generazione di trennteni hanno visto. 

La carrellata di scene più o meno tragiche (ma sempre inverosimili), diventate in alcuni casi veri luoghi comuni, consente al pubblico di tracciare da sé un preciso collegamento fra le rappresentazioni mainstream delle persone trans negli scorsi decenni e le argomentazioni transfobiche che ancora oggi infestano i luoghi di dibattito pubblico. Due, in particolare, le linee di rappresentazione che hanno avuto più successo. La prima (Tootsie, Henry&Kip) è l’idea misogina secondo cui travestirsi da donna sia un valido espediente con cui un uomo può guadagnare più successo di quello che merita.

La seconda è la storia incredibile, resa iconica da Psycho, dell’uomo travestito che aggredisce le donne nei loro spazi più intimi. Un topos, quello della donna trans usurpatrice e predatrice, che non è neppure corretto definire stereotipo vista la sua totale alienazione dalla realtà, e che tuttavia influenza tuttora la conversazione sulla legittimità dell’inclusione delle donne trans negli spazi femminili.

È qui però che gli autori commettono il grave errore di attribuire alle “femministe” tout court l’adozione di posizioni transfobiche basate sulle false rappresentazioni ricordate sopra. La riduzione del femminismo alla sua componente trans-escludente è una semplificazione che sfocia nella menzogna, ed è sconfortante trovarla in un documentario che ha per oggetto la rappresentazione mediatica tendenziosa di una categoria. 

Il documentario non lesina attenzioni alla più che mai attuale tematica razziale, mostrando come personaggi cross-dresser e ner* abbiano avuto fin dagli albori del cinema (The Birth of a nation è del 1915) rappresentazioni particolarmente perverse. 

Encomiabile infine l’attenzione posta sulla scarsa presenza di persone trans nei settori produttivi e autoriali dell’industria dell’intrattenimento, anche se sarebbe stato utile rilevare che questa sotto-rappresentazione riguarda anche le donne cis: una condizione che dovrebbe far emergere (se ancora ci fosse bisogno di ribadirlo) la necessità di una lotta condivisa per la ridistribuzione del potere.