di Carlo Francesco Salmaso

Certe persone pensano ci si diventi per scelta. Nessuna immagina che un suo conoscente possa esserlo. A malapena c’è qualche personaggio famoso – Hilary Swank o Daniel Craig – ad ammettere di conoscere il tema in prima persona. La maggior parte dei cittadini semplicemente non ci fa caso, qualcuno ha un senso di fastidio incontrandole, quelle davvero più progressiste hanno un amico così.

Il non riconoscimento dei loro diritti è sotto gli occhi di tutti, eppure la politica non propone azioni a riguardo. Intanto, loro provano spesso vergogna di sé, mantengono il segreto quando conoscono gente nuova, si ritrovano in ambienti frequentati solo da simili per soddisfare bisogni primari.

 

Le persone senza dimora in Italia, censite da ISTAT nel 2012, sono quasi 50.000, ma è una cifra oggi sottostimata: tre anni di crisi in meno, prima dell’arrivo di molti richiedenti asilo e prima dell’ulteriore riduzione di spesa sociale degli enti pubblici. Inoltre il dato tiene conto solo di chi ha avuto accesso ai servizi. Ci sono altre persone? Certo: i padri separati che vivono in auto pur lavorando, quelle che hanno trovato riparo in uno stabile vuoto, senza riscaldamento né luce, quelle spesso straniere che vivono stipate in stanzette, pagando affitti altissimi perché hanno i documenti scaduti o perché nessuno affitta loro regolarmente. Per FEANTSA – la federazione europea delle organizzazioni nazionali che lavorano con le persone senza dimora – sono tutte homeless, eppure restano pressoché invisibili nello spazio pubblico.

La povertà è davvero molto toccante, ma cosa c’entra con La Falla? C’entra in almeno due modi. Il primo è che la povertà non è un problema dei poveri. Se escludiamo che essere senza dimora sia l’esito di scelte individuali tra infinite possibilità (il mai tramontato “scelgono di stare in strada per essere davvero liberi”) e guardiamo un po’ di studi scientifici, è assodato che il ruolo della società nel produrre emarginazione non è di poco conto. Esistono aspetti materiali: l’Italia non è un paese povero, se qualcuno è povero vuol dire che non siamo molto bravi con la distribuzione della ricchezza. Ed esistono aspetti culturali che tra noi della Falla mi sembra interessante sottolineare: lo stigma e l’emarginazione.

Per spiegare cosa intendo possiamo fare un piccolo esperimento a partire dalle nostre reazioni ed emozioni, non so se riesce: pensiamo a un senza dimora (tendono ad essere maschi, perché?). Lo immaginate sporco? Con la barba? Già questo sarebbe uno stereotipo. Un sacco di persone senza dimora tengono davvero al loro aspetto, non le si direbbe tali incrociandole per strada. Quindi immaginiamo uno vestito con dei pantaloni non proprio della sua taglia, una camicia non perfettamente bianca, la faccia segnata da una serie di sfighe pazzesche e da migliaia di sfide giornaliere per arrivare a domani. A pelle vi viene da pensare “Wow, chissà che storia complicata, avviciniamoci!” oppure “Bah, chi sarà questo”? Il suo aspetto lo avvantaggia o lo allontana da un buon posto di lavoro che avreste da offrirgli? E dal sentire di diventarne amiche?

Non so il vostro istinto, ma in generale la società segue un po’ più la seconda. Fissa un modello di come si dovrebbe essere, fissa cosa è peggio e cosa meglio del modello (i pantaloni larghi e demodé), per poi spingere ai margini le persone con le caratteristiche peggiori. Tutto quello che dicevamo all’inizio dell’articolo e che conosciamo bene si chiama stigma, emarginazione. Con gli effetti sulla persona che ognuno di noi può elencare a memoria: fatica ad accettarsi, a considerarsi di valore, imbarazzo a stare con gli altri, a parlare di sé, ad avere rapporti con le famiglie. Mi viene da pensare che gli homeless abbiano pure più sfiga perché non c’è nessuna Flavia Madaschi a mandare affanculo quelli a cui fanno schifo, a partire da certi lati di loro stessi. Quindi il primo motivo per cui la povertà potrebbe c’entrare con noi lettori della Falla è che siamo fottutamente esperti di stigma ed emarginazione (purtroppo), ma anche di lotta e di inclusione, abbiamo know-how da condividere e un orizzonte di cambiamento in comune.

C’è un secondo motivo per cui la povertà potrebbe interessarci: tutte le ricerche quantitative svolte sul tema affermano che, tra gli homeless, le persone LGBT+ sono iper-rappresentate. Arriviamo a parlare del 40% sul totale dei giovani. Sorpresa? Cause principali del fenomeno: la rottura con la famiglia e col contesto di provenienza, anche attraverso conflitti che vengono prima del coming out, dovuti a dubbi e difficoltà nell’avere a che fare con l’immagine di sé che il contesto desidererebbe.

In Italia questi dati non sono disponibili, ci sono solo due ricerche qualitative, svolte proprio a Bologna, sul tema. Dimostrano che le persone LGBT+ dichiarate tra gli homeless sono pochissime, meno di quelle dichiarate in altri ambienti. Perché? Non significa che le persone LGBT+ siano tutte ricche, emerge piuttosto un dato di invisibilità: in Italia molte persone LGBT non fanno coming out (e il dato è collegato alla classe sociale). I numeri peggiorano con gli stranieri – che sono tra il 60 e il 70% dei senza dimora a Bologna – provenienti da culture dove l’essere LGBT è meno accettato che in Italia, o dove a volte non è proprio un’opzione pensabile: non c’è una cultura fatta di Stonewall, Carrà, orsi e drag queen. Magari c’è altro: Zeki Müren, per esempo. Sono persone cosiddette questioning, in cui l’eventuale passaggio da desideri, affetti e comportamenti alla definizione di sé è ancora tutto da compiere.

Il motivo principale dell’invisibilità è comunque legato al contesto. Perché al Cassero le persone fanno coming out e da altre parti no? Il fatto è che le mense, i dormitori, i punti di ascolto sono particolarmente vulnerabili all’omofobia. Ci sono episodi di violenza verbale, e a volte fisica, di matrice omotransfobica. Gli operatori sociali, poi, non sono tenuti ad essere informati sul tema e la persona LGBT+ non percepisce sicuro esporsi.

Qui, come comunità LGBT+, volendo avremmo molto da fare: in primis richiedere o implementare servizi in grado di intervenire efficacemente sui bisogni specifici delle persone homeless LGBT+, dalla sicurezza alla socialità. Possiamo insistere sulla necessità di formare gli operatori sociali sul tema, creare e pubblicizzare spazi protetti di ascolto e supporto (telefoni, gruppi FB, sportelli, gruppi di incontro liberi dallo stigma verso la homelessness), diffondere campagne inclusive presso i servizi. Possiamo parlare del tema e sensibilizzare la città tutta.

Soprattutto possiamo iniziare a incontrare le persone homeless e parlare con loro del mondo che vorremmo. Il sistema dell’invisibilità è solido, anche qui sta a noi creare una falla.

Illustrazione di Jacopo Camagni

pubblicato sul numero 10 della Falla – dicembre 2015