INTERVISTA A GIULIA ZOLLINO

Giulia Zollino è un’antropologa, educatrice sessuale, divulgatrice e sex worker. La Falla l’ha intervistata in vista della presentazione bolognese del suo primo libro: Sex work is work (Eris), che sarà condotta da Nicoletta Landi domenica 6 giugno alle ore 19.00 al Cassero.

Parliamo dello stigma della puttana, che è anche il titolo di una prima pagina che Pia Covre scrisse per noi qualche anno fa. Tu nomini la sessuofobia come una delle cause dello stigma. Quanto sarebbe quindi importante implementare l’educazione sessuale per poter deflettere un po’ lo stigma? 

Tantissimo! Recentemente sono stata in una classe quinta a fare un laboratorio di educazione alla sessualità. C’è molta più consapevolezza e informazione rispetto a quando ero io adolescente, ma pesano ancora molto gli stereotipi di genere. E mi collego al discorso della puttana: ancora adesso, se sei interessata al sesso e/o se fai sesso, sei definita puttana. Tante ragazze di questa classe parlavano anche dei loro stessi genitori come le persone che prima di tutte insultano le figlie dando loro della puttana. Fare educazione sessuale, al genere, all’affettività, significherebbe smantellare tutt* insieme tutti questi stereotipi. La decostruzione è un lavoro gigantesco e faticoso, tanto più se le persone sono lasciate da sole a farlo. Io penso che faccia la differenza, anche nell’accettazione del lavoro sessuale. Come scrivo anche nel libro, normalizzare la sessualità significa normalizzare anche chi monetizza la propria.

Puoi offrire alle nostre lettrici qualche consiglio su come essere brav* alleat*?

La cosa principale, secondo me, è ascoltare tutte le voci che già ci sono. Trovo che i social siano una grande opportunità per raccontare la nostra narrazione da sex worker, riappropriandocene, senza che altr* parlino per noi dando una rappresentazione sbagliata. Sta poi a chi ascolta e guarda l’essere ricettiv*, e seguire i profili sia delle associazioni che de* singol* sex worker. All’estero ci mettono la faccia un po’ di più, ma stanno emergendo profili di sex worker che lavorano soprattutto online, che hanno un privilegio diverso: la visibilità è anche un discorso di privilegio

Da buon* alleat*, oltre che ascoltare, direi inoltre lasciare spazio.

A volte, poi, le associazioni e i collettivi di sex worker sono formati anche da alleat*, che spesso si mandano avanti anche per questioni di privacy, e quindi c’è anche questo, come si fa per altro anche in altri contesti: utilizzare il proprio privilegio in nostro favore, facendo per esempio informazione e formazione per produrre cambiamento sociale. 

Rispetto al linguaggio da usare: direi che solo sex worker è corretto, per chi non pratica, perché qualsiasi altra parola è o giudicante o una riappropriazione indebita, me lo confermi? 

Sì. Io sono molto a favore della riappropriazione di puttana, prostituta, meretrice, ecc, e a me personalmente importa poco, ma non è così per tutte le persone. Non si può cancellare lo stigma, né il significato e il portato negativo che si portano dietro queste parole, perciò sex worker è il termine più neutro e anche più inclusivo. 

Però farei comunque attenzione: quando ci rivolgiamo a una persona che fa sex work, chiediamole, un po’ come si fa coi pronomi, «Come vuoi che mi riferisca a te, come vuoi essere identificat*». Nonostante tutto il mio background di studi ed esperienze col lavoro sessuale, quando mi sono approcciata da operatrice a delle persone che fanno sex work su strada, mi è accaduto, per esempio, di aver detto loro che stavano svolgendo un lavoro, e di averle chiamate sex worker: è stato un problema. Certo, effetto dello stigma interiorizzato, ma va tenuto conto che alcun* non si definiscono sex worker, e dir loro che quello per loro è un lavoro viene percepito come una grande offesa. 

Alla fine del libro c’è una sorta di mini manifesto del lavoro sessuale. Attualizzato nel qui e ora dell’Italia, esiste un’agenda politica, de* sex worker, e se sì qual è?

La maggiore organizzazione di sex worker in Italia è ancora il Comitato per i diritti civili delle prostitute, portato avanti da Pia Covre, che è ancora battagliera. Insieme all’associazione radicale Certi Diritti stanno facendo un lavoro per contestare tutte le ordinanze comunali che di fatto sono anti prostituzione, anche se non lo dichiarano esplicitamente. Nel corso del tempo il Comitato ha lavorato tanto anche a proposte di legge, ne sono state fatte dieci, se non sbaglio, per cambiare la legge Merlin, anche se nessuna è stata mai discussa in parlamento.

La direzione è quella della decriminalizzazione, come nel modello neozelandese, tuttavia sembra un po’ utopico riuscire a ottenerla nel giro dei prossimi 5-10 anni.

Nella tua esperienza, senza pretendere di fare delle statistiche, di che genere è chi fa sex work? 

Le statistiche che ho in mente riguardano più il lavoro su strada o in casa, in una parola offline. Lì siamo una maggioranza, con l’80% di donne cis; certo ciò non ti dice nulla del loro orientamento. Conosco poi persone che per lavoro si trasformano: persone non binarie che si fingono donne cis, uomini che si fingono donne trans, ecc.

L’altra grande categoria sono le donne trans*, seguite poi da uomini, che si pubblicizzano come uomini gay, per lo più ragazzi giovani e migranti. 

Quanto e come incide il razzismo sistemico sulla vita delle sex worker migranti, intendendo con ciò quelle che lo fanno per scelta, non certo le vittime di tratta?

Moltissimo. C’è una gerarchia tra sex worker, che è sia interna che esterna. Le varie forme di oppressione si moltiplicano rendendo la vita più difficile alle persone razzializzate, secondo quanto ci fa comprendere il concetto di intersezionalità. 

C’è da dire che in termini di narrazioni queste sono quelle più raccontate dai media. Forse si nasconde un po’ il fatto che ci sono anche tante donne italiane che stanno iniziando, per esempio con la pandemia c’è stato un aumento degli annunci on line. Il racconto prevalente è invece quello della donna migrante sulla strada, nell’illegalità, sfruttata dalla criminalità.

Finora ci siamo concentrate sullo stigma che affligge le persone che esercitano il lavoro sessuale. Ma ci sono anche dei vantaggi nel fare questa scelta, e se sì, quali?

Se scelto per passione o perché ti va di farlo, porta il vantaggio principale che sei content*, ma questo si applica anche a qualsiasi altro lavoro. Poi una cosa che ho riscontrato sia nella mia storia che in altre è che il lavoro sessuale porta una maggiore sicurezza in se stess* e a essere più in pace con la propria immagine corporea. È anche una sfida ai limiti delle regole sulla sessualità che ti insegnano: che non devi essere interessata al sesso, devi avere poch* partner, non ti devi mostrare, devi essere invisibile. Quindi, soprattutto all’inizio, senti che stai facendo qualcosa di trasgressivo, poi diventa un lavoro e basta, ma questo spingerti oltre il limite sostanzialmente ti aiuta. In quest’ottica è una forma di empowerment, così come qualsiasi esperienza positiva che facciamo con entusiasmo.

Vuoi offrirci qualche anticipazione sui progetti che hai in cantiere?

Sono ancora in fase troppo embrionale perché mi senta di parlarne. Vi segnalo però il mio Patreon, una piattaforma di abbonamento in cui si possono trovare dei contenuti extra come un podcast, laboratori live sulla sessualità, e anche foto erotiche.

Immagine in evidenza da rollingstone.it, immagine nel testo da mondadoristore.it