La farmacologia è quella branca della scienza che si occupa di studiare i farmaci e le interazioni che hanno luogo tra questi e gli organismi viventi. Per farmaco si intende ogni sostanza in grado di provocare in un organismo modificazioni funzionali mediante un’azione chimica ben precisa. Queste interazioni, un po’ come le relazioni umane, possono portare a risultati utili ed essere quindi sfruttate in modo positivo e terapeutico, o possono portare a effetti tossici.

Ogni sostanza chimica ha un enorme potenziale e ciò che la differenzia da un veleno è semplicemente la dose: 500 mg di paracetamolo hanno un effetto terapeutico, 9 g possono invece rivelarsi letali perché manderebbero il fegato in blocco. Significa che abusare del paracetamolo – che tuttǝ conosciamo dall’omonimo pezzo indie di Calcutta – potrebbe farci stare molto male. II tutto sta sempre nella giusta misura. Possiamo affermarlo perché proveniamo da anni di ricerche e sperimentazione. I primi farmaci sono nati dall’erboristeria, dalle piante officinali trattate in modo da avere un’azione terapeutica, dalla camomilla, alle foglie di eucalipto, allo zenzero pestato per il mal di gola, fino ad arrivare all’atropa belladonna oggi usata durante gli interventi chirurgici per modulare i livelli di salivazione mentre siamo sedatǝ sotto i ferri. A dosi alte potrebbe permetterci di uccidere qualcunǝ, un po’ come si faceva nel medioevo nelle diatribe tra famiglie. 

La farmacologia ha quindi una storia molto lunga alle spalle, quasi come quella dell’umanità. È una materia dinamica che segue i tempi della ricerca e spesso della cultura che ne permea i contesti. Mi spiego meglio: recentemente, la farmacologia ha acquisito una connotazione più fluida e specifica. Negli anni i corpi studiati sono sempre stati trattati come fini a sé stessi; parliamo di corpi di maschi cisgenere e bianchi. Il taglio è sempre stato lo stesso: patriarcale ed estremamente targhettizzato sul modello androcentrico del maschio cis occidentale. Il resto? Non considerato o, peggio, uniformato al corpo maschile. 

Per secoli la farmacologia e il sapere medico in generale non hanno incontrato la società e, occupandosi di corpi che recavano – e recano – solo biografie limitate al maschio cis, non hanno potuto garantire al meglio cure personalizzate. Il problema più grande è che, ancora oggi, non esiste una letteratura scientifica in grado di dar voce e in grado di parlare per tutto il sommerso delle soggettività non rappresentate dal modello prestabilito. Parlo in particolare delle soggettività AMAB, AFAB e intersex. 

Pensiamo all’impatto che può avere una terapia farmacologica non mirata su una persona che sta assumendo una terapia ormonale sostitutiva. Sono diversi i casi in cui le soggettività LGBTQ+, soprattutto persone trans*, sono ignorate nelle proprie esigenze sanitarie e devono scontrarsi non solo con terapie farmacologiche inadeguate, ma con un intero sistema sanitario non formato. Questo è un fatto grave e come attivistǝ nell’ambito della salute abbiamo toccato con mano il problema più volte. Si pensi alla scelta dei farmaci a base di testosterone prescritti da endocrinologǝ, urologǝ e andrologǝ per persone trans*. La scelta ricade quasi sempre sui soliti noti disponibili sul mercato, studiati e testati per motivi e patologie su persone cis non in terapia, quindi non specifici per le persone trans*. Sappiamo quali potrebbero essere le complicazioni a lungo termine? No, perché non esiste una letteratura in merito, se non recente. Un altro problema, già affrontato in un altro articolo di questa rubrica, è che l’utilizzo del testosterone non sufficientemente regolamentato e trattato è uno dei motivi per cui nelle farmacie vengono effettuati controlli stringenti sulle prescrizioni e spesso ne viene negata l’erogazione. Inoltre, è stato autorizzato soltanto l’uso su persone assegnate al genere maschile alla nascita (o AMAB).  

Viviamo all’interno di un sistema sanitario ancora molto statico e cristallizzato. Tuttavia di recente qualche spiraglio di luce e fluidità nell’approccio alle cure inizia ad apparire, almeno in linea teorica. 

Parlo della Gender Oriented Pharmacology, in italiano farmacologia di genere,  una branca innovativa della farmacologia, che evidenzia e definisce le differenze di efficacia e sicurezza dei farmaci in funzione del genere e tenendo conto della soggettività. Il tutto non è relegato alla difformità degli organi sessuali tra persone, come ahimè la medicina tradizionale intende, ma anche alle specificità derivanti dalla diversa fisiologia, psicologia e dai contesti socio-culturali differenti, i quali vanno ad influire sulle aspettative di vita e sull’approccio di cura della persona. 

I fattori di rischio e le loro conseguenze sono molteplici, pensiamo a persone che affrontano più gravidanze nel corso della loro vita o che soffrono di mestruazioni dolorose: tenderanno, ad esempio, ad assumere dosi massicce di antidolorifici per far fronte a dolori spesso cronici. Per anni la letteratura scientifica non ha tenuto conto di tutto questo, ma la farmacologia di genere inizia a farlo, dando visibilità ad alcune malattie più sottovalutate di altre, in questo caso l’endometriosi. 

Altro esempio di come ogni organismo sia un corpo con un proprio vissuto, una storia clinica personale e un percorso biografico unico, è rappresentato dalla capacità di metabolizzare l’alcol. Non tutte le persone possiedono infatti lo stesso corredo di alcoldeidrogenasi (ADH) e questo significa che alcune si ubriacano prima, altre molto dopo. Potrei continuare con esempi simili, sarebbero infiniti, ma il punto a cui vorrei arrivare è uno, ossia porre una domanda: è possibile il raggiungimento di una sperimentazione farmacologica personalizzata? La risposta auspico sia affermativa. Da attivistǝ, la mia speranza è che la ricerca farmacologica prosegua in questa direzione e che la sanità sviluppi uno sguardo sempre più fluido e che inizi a occuparsi di corpi come soggettività e non come organismi.