INTERVISTA A SANDRA ZODIACO

In occasione dell’evento organizzato da Falla e Cassero Salute per la Giornata Nazionale del Fiocchetto Lilla, abbiamo intervistato Sandra Zodiaco. Attivista per la sensibilizzazione e la lotta ai disturbi del comportamento alimentare (Dca) e militante dell’associazione Mi Nutro di Vita, Sandra è anche autrice del libro Oltre. Scoprirsi fragili: confessioni sul (mio) disturbo alimentare.

Cos’è un disturbo del comportamento alimentare?

L’etichetta Dca viene utilizzata per definire differenti disturbi che “determinano un alterato consumo o assorbimento di cibo, danneggiando significativamente la salute fisica e il funzionamento psicosociale della persona” (DSM-5). Tra i più comuni ci sono l’anoressia, la bulimia e il binge eating (disturbo da alimentazione incontrollata). Altri disturbi, sempre più frequenti, sono l’ortoressia, la vigoressia (negli uomini) e il pica (tipico dell’età infantile).

Credi che ci sia un momento specifico, una sorta di frattura, che dà vita a un rapporto conflittuale col cibo e col proprio corpo o è un qualcosa di più intangibile?

Si tratta di disturbi multifattoriali, causati cioè da una serie di concause di varia natura: psicologici, sociali, organici, ambientali. Ci possono essere fattori scatenanti o predisponenti, ma raramente è individuabile un singolo motivo per il quale la persona si ammala.

Si tratta di un disagio che potremmo definire dell’anima, che ha quindi a che fare con una dimensione molto intima e profonda della persona che lo vive. Sicuramente una frattura di fondo c’è, ed è quella dell’equilibrio che la persona ha nei confronti di sé stessa e del mondo che la circonda; non quindi solamente rispetto al proprio aspetto fisico, contrariamente a come si potrebbe credere, ma proprio rispetto all’immagine che ha di sé nella sua totalità, anche in termini di autostima, per esempio.

Che ruolo può giocare tutto questo nella formazione della propria identità e del rapporto con sé stessi?

I Dca hanno molto a che fare con la difficoltà di riconoscersi – anche nel proprio corpo – come individui, come esseri umani. Quando soffri è un po’ come se avessi perso la bussola: non sai più cosa ti piace e cosa non ti piace, non ti riconosci più, perché la malattia diventa una sorta di scudo dietro il quale trincerarti per paura di guardare il mondo vivere, di guardarti vivere.

Quanto può essere difficile iniziare un percorso terapeutico?

Molto, senza dubbio. Lo è perché implica mettersi in discussione, affrontare le nostre paure, rielaborare situazioni e vissuti talvolta particolarmente difficili e traumatici. Ma credo che l’ausilio di una guida, qual è il terapeuta, sia fondamentale per aiutarci a ristabilire quel contatto con noi stessi che la malattia ci ha inevitabilmente portati a perdere. In questo senso poi la malattia si rivela anche – quasi paradossalmente – come un’opportunità, un’occasione per riscoprirsi e conoscersi meglio.

Chiedere aiuto può essere difficile, perché la sofferenza che un Dca porta con sé può essere così potente da far sentire incapaci di reagire, in balia di una forza apparentemente incontrastabile e inaffrontabile. Trovare il coraggio di chiedere aiuto non significa rassegnarsi o arrendersi a essa, anzi, significa concedersi la possibilità di lottare ad armi pari, per riappropriarsi di tutte le emozioni e le sensazioni positive che la malattia impedisce invece di sentire, per riconquistare la libertà di essere semplicemente sé stessi.

Andare a scavare nel profondo del proprio vissuto non è facile. Ci vuole coraggio. Quanto coraggio ci vuole per guardare in faccia le proprie debolezze, per affrontare le proprie paure! La scelta di chi lotta contro un Dca credo sia un atto davvero coraggioso, perché costa tanta fatica, tanti sacrifici e comporta a sua volta tanta sofferenza, ma è una scelta che vale la pena, perché vale la vita!

Che cosa ti ha spinta a raccontare la tua storia nel libro Oltre. Scoprirsi fragili: confessioni sul (mio) disturbo alimentare?

Fino a poco tempo fa, non avevo idea di quanta vita ci può essere oltre il dolore, nonostante il dolore, non credevo che dal dolore si potesse rinascere…e invece sì, dal dolore e dalla sofferenza può rinascere la Vita!

Quando ho iniziato a stare meglio, ho avvertito la necessità di condividere e raccontare le sensazioni che avevo attraversato; da lì l’idea di Oltre. Proprio perché si tratta di disturbi difficili da raccontare a parole per chi sta soffrendo, ho pensato che dare voce alle emozioni della persona che li vive (molti vissuti sono trasversali, anche se, ci tengo a dirlo, ogni storia è una storia a sé) potesse essere d’aiuto a chi quotidianamente combatte questa lotta in prima persona, o indirettamente, accanto a un proprio caro; una possibilità di riconoscersi e sentirsi, di conseguenza, meno soli.

Spero che nel suo piccolo Oltre possa a sua volta essere d’aiuto a chi lotta contro il male subdolo dei Dca e, soprattutto, a chi ancora non riesce a chiedere aiuto, a trovare le parole per esprimere la propria sofferenza. Spero possa essere anche il pretesto per creare dei momenti di confronto e di sensibilizzazione su questi disagi, che colpiscono ogni anno sempre più giovani e giovanissimi.

Qual è stato il tuo percorso?  

Di tipo ambulatoriale, a livello intensivo nella fase acuta della malattia.

Ho iniziato con un primo percorso di psicoterapia individuale, per 3 anni, che però ho abbandonato. Poi sono trascorsi altri 3 anni prima che mia madre riuscisse a convincermi a intraprenderne più strutturato: è allora che mi sono rivolta a un centro privato, a un’èquipe multidisciplinare specializzata nella cura di queste malattie. Ci è voluto un bel po’ di tempo per imparare a fidarmi di loro ma, col senno di poi, penso che sia stata la scelta più giusta, e coraggiosa al tempo stesso, che io abbia mai potuto fare per salvare Sandra (o meglio, la piccola Sandra).

Qual è, oggi, il tuo rapporto con il disturbo del comportamento alimentare che hai dovuto fronteggiare? Ammesso che sia possibile, senti di poterti definire guarita?

Credo che un’esperienza profonda e dolorosa come questa ti segni a vita: ho trascorso 10 anni della mia vita (ne ho 28 ora) in compagnia di questa scomoda presenza. Ma poter oggi raccontare la mia storia, sperando di restituire un briciolo di speranza e di fiducia a tutte quelle persone che ogni giorno lottano contro questo male subdolo (e, accanto a loro, i loro familiari, amici e conoscenti), mi permette di vedere meglio quanto è cambiata la mia vita grazie al percorso che ho intrapreso e quanto è davvero importante lavorare su noi stessi, in primis.

Il tuo rapporto col cibo segna ancora il tuo modo di pensare e agire? Ha fatto o fa ancora parte della tua identità?

«Siamo ciò che mangiamo», lo diceva anche Ippocrate, il padre della medicina. E senza cibo non possiamo vivere. Perciò si, credo che il nostro rapporto con il cibo racconti molto di noi e della nostra salute psicofisica.

Senza dubbio questa dinamica ancora oggi mi influenza, ma non in maniera così preponderante come un tempo: da ossessione soffocante che non concedeva possibilità di replica, si è trasformato in un dialogo più pacifico tra le parti.

Cosa pensi che si debba fare, a livello sociale, per affrontare i Dca. Secondo la tua esperienza cosa manca nel nostro sistema e cosa invece è di aiuto?

Penso che ancora manchino conoscenza e consapevolezza a livello generale, e la disinformazione contribuisce ad acuire il disagio di chi vive questa grande sofferenza. Anche se nell’ultimo decennio degli importanti passi avanti sono stati fatti, penso ci sia ancora molto da fare in termini di ampliamento e diffusione della cultura sui Dca. Bisogna tenere presente che questo mancato riconoscimento da parte della società porta chi soffre a sentirsi escluso, alienato, etichettato come diverso, il che non facilita assolutamente la possibilità di affrontare un percorso riabilitativo.

Cosa vedi oggi quando ti guardi allo specchio?

Uno degli elementi spesso associati a questi disturbi è la dismorfofobia corporea, una fobia che nasce da una visione distorta che si ha del proprio aspetto esteriore, causata da un’eccessiva preoccupazione nei confronti della propria immagine corporea. Sostanzialmente, quindi, la persona che soffre non si vede per come è realmente, l’immagine che vede proiettata nello specchio non corrisponde alle sue reali dimensioni. Ho vissuto per tanto tempo quella sensazione e il rapporto con la mia immagine corporea rimane ancora qualcosa di complesso, lo ammetto. Anche se oggi riflessa non vedo più l’ombra inquietante del passato e credo di aver finalmente fatto pace con gli specchi.